RiEvoluzione Poetica

giovedì 14 gennaio 2016

ORSO-CHE-CORRE - 15esimo anniversario della morte

Queste sono le parole di Ray "Orso-che-corre" Allen, per ricordarlo nel 15° anniversario della sua uccisione tramite iniezione letale, avvenuta il 17 gennaio 2006, giorno in cui aveva compiuto 76 anni, dopo averne passati 30 in un piccolo buco di un metro e mezzo per tre, nel braccio della morte californiano di San Quentin. Orso-che-corre era affetto da un diabete che lo aveva reso quasi cieco e lo costringeva a deambulare su una sedia a rotelle, che non entrava nell'angusta camera della morte, così i secondini sono stati costretti ad alzarlo di peso per farlo passare nella porticina dell'ex camera a gas. Inoltre, in carcere era stato colpito da due infarti, l'ultimo appena tre mesi prima dell'esecuzione. Lo hanno curato come mai avrebbero fatto se fosse stato un uomo libero, perchè forse volevano avere loro tutto l'onore. Dall'istante in cui gli è stato iniettato il liquido velenoso, il suo cuore ha continuato a battere per 15 minuti. Le sue ultime parole sono state "Ho-ka-ha", che nella sua lingua Cherokee significano: "oggi è un buon giorno per morire".
 

Ray "Running Bear" Allen, dal braccio della morte di San Quentin, California... 

Sono nato nel 1930, il mio nome indiano è
Ya-nu a-di-si, che significa Orso-che-corre. Sono per metà Cherokee da parte di mia madre e per metà Choctaw da parte di mio padre. Vorrei condurvi sulla strada che ho percorso quando ero un giovane ragazzo, cresciuto nella terra dell’uomo bianco, in Oklahoma.


Eravamo molto poveri, come la maggior parte della gente di allora. La cosa che ricorderò per sempre, è l’amore e la comprensione che avevano per noi bambini la nostra piccola madre e il nostro fierissimo padre. A me e a mio fratello furono insegnate molte cose, come pescare e cacciare, oppure come curare le ossa rotte e i morsi di serpente. Ci fu insegnato quali piante prendere per poterle mangiare e anche quali potevamo usare per curarti quando eri ammalato. Molte di queste cose ci furono insegnate dai membri della nostra tribù. Certo, ho avuto una vita molto dura allora, ma per merito dei miei genitori la mia infanzia è stata molto felice.

Ma voglio parlarvi di dove vivo adesso: mi trovo nel braccio della morte, qui, nella prigione di San Quentin, in California, da ormai 25 inverni. Fino ad oggi ho ricevuto tre date di esecuzione, ma ogni volta, all’ultimo minuto, il “Nonno” (il Grande Spirito) si è fatto avanti e non ha permesso allo Stato di prendersi la mia vita. Quando loro parlano della “giustizia uguale per tutti”, il vecchio Orso-che-corre non sorride di queste parole prive di significato. Al momento, sono in appello presso la Corte federale e sto cercando di ottenere un nuovo processo, per dimostrare finalmente che non sono in alcun modo colpevole del crimine per cui vogliono togliermi la vita. Ma, nel caso le cose dovessero andar male e la mia vita dovesse essere presa dallo Stato della California, non siatene tristi, cari amici. Molti uomini e donne sono già stati sentenziati per crimini che non hanno mai commesso. Il vecchio Orso-che-corre non sarà il primo, e dal modo in cui stanno andando le cose sono convinto che sarò lontano dall’essere l’ultimo.

Ora, vorrei ringraziare di cuore il mio meraviglioso fratello adottivo, Marco Cinque; il nome indiano che gli ho dato è “
U-wo-li gi-ga-ge”, che significa “Aquila Rossa”. E grazie anche alla sua amorevole moglie Lina “Summer Sun” e a suo figlio Stefano “Little Warrior”, per il modo in cui amano questo vecchio Orso. Un grande “WA-DO” (grazie dal centro del cuore), a un altro meraviglioso fratello adottivo: Maurizio “Drum Dancer” Carbone, che assieme a Marco “Red Eagle” portano Orso-che-corre a spasso per l’Italia, per farlo conoscere a tante persone, soprattutto a quei dolcissimi bambini delle vostre scuole. Senza il loro amore e sostegno questo tepee di cemento non avrebbe lo splendore che ha.

Fratelli e sorelle, io prego il "Nonno" di infondere saggezza in tutti quelli che stanno ascoltando queste parole. Ho paura che il mio tempo sulla Madre Terra sarà breve ormai, ma prego che non sia così. Vorrei potervi stringere le mani prima di andare dal "Nonno" però, in caso contrario, vi aspetterò un giorno nel mio bel tee-pee rosso in mezzo alla grande prateria, lassù, nei Celesti Pascoli.

Conosco così tante persone nel vostro paese che, purtroppo, ho potuto vedere solo nelle fotografie che mi hanno mandato; ma ogni volta che mi siedo nella mia cella buia penso di essere molto fortunato ad avere degli amici che mi stanno dando supporto come una vera famiglia. Hanno fatto così tanto per me, tenendo vivo il mio spirito con i loro segnali di fumo gentili e pieni di amore.

Camminiamo sulla Madre Terra per un breve tempo, ma se proprio dovessi andare dal "Nonno" prima d'incontrarvi, allora ricordatemi come un uomo semplice ingiustamente condannato per un crimine che non ha mai commesso. Ho sempre cercato di vivere una vita onesta. Certo, talvolta non mi è riuscito.

Dal buio di questa cella, sento il vostro spirito e il vostro amore mentre ascoltate le mie parole e vi dico che nessuno ha degli amici come li ho io; così, auguro che tutti i vostri sogni si possano trasformare in realtà.

Possa il Sole portarvi nuova energia durante il giorno e la Luna ristorarvi dolcemente in ogni notte. Possa la pioggia lavare via le vostre preoccupazioni e la brezza soffice inebriare di forza i vostri corpi. Possano i vostri sogni galoppare tra le nuvole e i vostri pensieri inseguirsi tra le Stelle e possiate ogni giorno, per tutti i giorni della vostra vita, camminare liberi nella bellezza di questo mondo.

Ma voglio lasciarvi con queste parole: “Vogliate bene alle vostre famiglie con tutto il cuore. Vogliate bene ai vostri compagni e compagne più che potete. Vogliate bene ai bambini e non smettete mai d'insegnar loro cos'è l'amore”.

vostro
Orso-che-corre


§§§


L'ultima poesia scritta da Orso-che-corre:
 

SONO QUI


Non stare a piangere sulla mia cenere.
Non sono là. Non sono morto.
Io sono mille venti che soffiano.
Io sono lo splendore nella neve.
Io sono le lacrime che luccicano nei tuoi occhi.
Non piangere per me. Non sono morto.
Io sono il sole sui tuoi capelli: guardami.
Io sono dappertutto.
Per favore, non stare a piangere per me.
Non sono là. E non dormo…


§§§

Qui una mia poesia a lui dedicata: 

Per mio fratello ucciso

 

 

venerdì 8 gennaio 2016

PENA DI MORTE? ECCO, CI RISIAMO


di Marco Cinque

Prendo spunto da un orrendo, ennesimo fatto di cronaca, ma anche dalle inaccettabili, feroci e reiterate violazioni dei diritti umani verso le categorie umane più fragili e indifese che, giustamente, colpiscono l’indignazione di ogni persona sensibile che ha a cuore le vittime innocenti di tali infausti eventi.

Svariate persone tra i miei amici e le mie amiche, spesso, manifestano una sorta di predisposizione o sono persino favorevoli al ritorno della pena di morte riguardo ad alcuni crimini, soprattutto quelli più odiosi ed efferati. Vorrei innanzitutto chiarire che la mia contrarietà assoluta, senza se e senza ma, alla pena di morte, non significa che io giustifichi o difenda o approvi i criminali e/o i crimini che essi compiono. Nient’affatto.

Dunque, ragionandoci sopra, provo a partire da me stesso come individuo, come persona, come singolo essere umano e, senza ipocrisie ma in tutta onestà, mi chiedo: cosa farei se qualcuno/a uccidesse mio figlio, torturasse mia madre, facesse a pezzi mia moglie, stuprasse i miei nipoti e via dicendo? Ora, per mia grande e buona fortuna, non mi è dato sapere quella che potrebbe essere la mia reazione, ma non posso escludere, nel modo più assoluto, che potrei anche essere capace di una reazione cruenta, violenta, fino ad arrivare a trasformarmi persino in un omicida.

Attenzione però, questa sarebbe solo una mia reazione individuale che non avrebbe la pretesa di fungere da modello o essere educativa per chicchessia, sarebbe solo la mia personale e umana risposta a un grande dolore che è stato inflitto, sia a me stesso che alle persone a me più care.

Quando invece parliamo di “pena di morte”, non ci stiamo più riferendo a reazioni individuali, ma a una risposta istituzionale di un intero Paese, uno Stato o un governo che rappresenta tutti e che, in quanto rappresentante di tutti, deve essere modello di riferimento e promuovere messaggi educativi e costruttivi.

Ma cos’è la pena capitale se non un messaggio palesemente contraddittorio attraverso cui, uccidendo, si pretende di insegnare a non uccidere? E’ come se un insegnante pretendesse di insegnare la non violenza usando la violenza sui suoi stessi alunni. “Una guerra – per ricordarlo attraverso le parole di Albert Camus – che un intero Stato dichiara a un singolo cittadino”. O ancora, citando come esempio il monito del reverendo Jessie Jackson: “quando è uno Stato ad uccidere siamo tutti boia”.

E, dunque, come potrebbe mai uno Stato davvero civile, mi chiedo, considerare immorale e improponibile il fatto di legalizzare e far propri reati come il furto, la truffa, lo stupro ed ogni altra sorta di sevizia, per poi non esitare a legalizzare e far proprio, nel modo più freddo, razionale, spietato e premeditato, il peggiore di tutti i crimini: l’omicidio?

La “legge del taglione” ha caratterizzato, fin dagli albori della civiltà umana, l’organizzazione sociale di molte comunità. Di fatto la pena di morte è uno strumento punitivo, impropriamente considerato il “braccio severo della giustizia”, che non possiede affatto il dono dell’equità. Se ad esempio il presidente di una nazione ordinasse (come è capitato e continua a capitare), per motivi strategici, di bombardare una comunità che ospita anche persone inermi, non ci sarebbe mai nessun giudice o giuria a condannarlo. Quel massacro sarebbe considerato al massimo un effetto collaterale, utile e necessario a mantenere intatta l’integrità della giustizia dominante corrente. Più facilmente, al mandante e agli esecutori di quelle stragi verrebbero riconosciute virtù molto vicine al coraggio e all’eroismo.

Se invece una singola persona, che magari ha pure la sventura di appartenere a un ceto sociale umile, uccide un altro essere umano, ecco che avrà forti probabilità di trasformarsi in un feroce assassino, un bruto, un mostro. Ma dov’è davvero la differenza tra gli omicidi di un presidente e quelli di un poveraccio? Forse nel potere che ognuno di essi detiene e rappresenta? O nel numero delle vittime soppresse: quando sono troppe, allora il mostro diventa eroe?

Uno dei cavalli di battaglia dei sostenitori della morte legale sta nell’affermare che tale sanzione avrebbe un potere deterrente e intimidatorio verso i potenziali criminali, ma i dati statistici di ogni epoca storica hanno dimostrato e continuano a dimostrarci che questo non è vero. Al contrario, proprio nei paesi dove vige la pena di morte, prospera e si propaga la criminalità più efferata. Una statistica inglese dei primi del 1900 affermava che su 250 impiccati 170 avevano precedentemente assistito ad una o più esecuzioni capitali. Sempre in Inghilterra, all’epoca in cui la pena di morte era prevista anche per ladruncoli e truffatori, durante ogni esecuzione pubblica venivano presi con le mani nel sacco almeno un paio di borsaioli mentre alleggerivano gli spettatori che assistevano all’impiccagione dei loro “colleghi di lavoro”.

Oltre alla questione morale (se sia o meno giusta la pena capitale) e alla luce dei dati statistici che denotano una visibile flessione dei reati di omicidio nei paesi abolizionisti, vien da pensare che la pena di morte non sia utile né a combattere e né, tantomeno, a cancellare l’ingiustizia e il crimine dalla faccia della terra.

Concludo con una provocazione, affermando che se mai mi ritenessi favorevole alla pena di morte, dovrei assumermi totalmente la responsabilità di ciò che dico o auspico. Vale a dire che se dovessi davvero prevedere una morte, persino lunga e dolorosa, all’odioso mostro di turno, quel lavoro sarebbe giusto lo facessi con le mie stesse mani, senza demandarlo al boia di turno che, in tal modo, mi dispenserebbe dal ritenermi l’autore materiale di quel crimine, evitandomi di conviverci per il resto della mia vita.

Nel mio più che ventennale lavoro itinerante che cerco di portare avanti, soprattutto tra i giovani e nelle scuole, provo ogni volta a gettare i semi per sognare assieme un mondo migliore, più giusto e umano di quello attuale. Pertanto, non posso avere tentennamenti o esitazioni o ambiguità sulla questione “pena di morte”, ecco perché dico e dirò, sempre e comunque, un fermo NO ad ogni sua ipotesi o forma, continuando a credere sino in fondo in quel “restiamo umani” con cui Vittorio Arrigoni concludeva ogni suo scritto. Una mia, seppur minima apertura verso qualunque violenza premeditata dell’uomo sull’uomo, tradirebbe questo principio e mi renderebbe parte integrante e partecipe della disumanità che dico di voler combattere.