RiEvoluzione Poetica

lunedì 23 gennaio 2017

Una volta era sinistra




Marco Cinque
Una volta, quando eravamo di sinistra, quando ci dicevamo comunisti, quando ci chiamavamo compagni, quando ci consideravamo anticonformisti e via dicendo, negli anni ‘70 e ’80 insomma, non ricordo che stavamo lì a badare se il nostro voto andasse a un partitino minuscolo o ad un movimento politico senza speranza.
Anzi, ricordo che pure allora, quando ad esempio nel mio quartiere, San Basilio, si seppe che la mia famiglia votava compatta per Democrazia Proletaria, ci fu una sollevazione dell’area PCI che ci accusava, spesso pesantemente, di togliere voti alla sinistra, di sprecarli, di fare un favore alla destra.
Ma nella cosiddetta “sinistra extraparlamentare” non si accettava il compromesso, nelle elezioni politiche, di votare il meno peggio, di scegliere tra l’incudine e il martello, quelli che probabilmente avrebbero vinto e governato.
Attualmente mi pare ci sia lo stesso problema. Ma noi, sognatori come eravamo, tenevamo duro e pensavamo che la sinistra che fa il miglior lavoro è quella che non si sporca le mani col potere. Ed è stato così. E’ stato esattamente così: solo con la sinistra all’opposizione si è raggiunto un livello decente di conquiste sociali, politiche, culturali e civili.
Oggi la sinistra non esiste più, o meglio, quella che dovrebbe essere la sinistra istituzionale e governativa è solo un’etichetta per definire, in buona sostanza, una destra capitalistica un po’ diversa dalla destra populista o xenofoba. Ma è una sinistra sostanzialmente molto più simile alla vecchia DC che al PCI. E questo si può riscontrare perfino nell’evoluzione (o involuzione) del nome: DS.
Sono cambiati i tempi e sono cambiati i nomi, ma in fondo le persone di questo paese sono le stesse, semmai un bel po’ peggiorate e ingrigite, anche perché sono peggiorate e ingrigite le relazioni umane.
Non è una questione politica, alla quale sarebbe più facile trovare soluzioni e dare risposte, ma una questione culturale: ci stiamo trasformando da “animali sociali” in “animali individuali” e questo, oltre che andar contro la nostra stessa natura, determina anche lo stato attuale dell’arte.
Adesso noi, tutti quei sognatori che eravamo e che siamo rimasti, sappiamo benissimo che non si può dare una risposta politica a un problema culturale.
Questo è il tempo della semina. Il tempo di rimettersi in gioco nel proprio piccolo. Il tempo di non demandare a qualcuno che già sappiamo non potrà risolvere i nostri problemi. Il tempo di riaprire le porte anziché chiuderle. Il tempo di ricordarsi che siamo, appunto, “animali sociali”. Il tempo di tornare ad essere umani, anche se il tempo, forse, si è stancato di darci altro tempo.

venerdì 20 gennaio 2017

L'ultimo atto di Obama

Marco Cinque

Poteva essere il canto del cigno per il presidente uscente Barak Obama, invece il suo rifiuto di concedere la grazia al prigioniero politico Lakota, Leonard Peltier, in carcere da 40 anni e gravemente malato, è stato l’ultimo atto, che sarà il sigillo emblematico dei suoi due mandati, costellati da molte ombre e poche luci.
"Siamo profondamente addolorati per la notizia che il presidente Obama non permetterà a Leonard di tornare a casa" ha affermato Margaret Huang, direttore esecutivo di Amnesty International Usa, aggiungendo che "nonostante le gravi perplessità circa l'equità dei procedimenti legali che hanno portato al suo processo e alla sua condanna, Peltier è stato imprigionato per più di 40 anni. Egli ha sempre sostenuto la sua innocenza. Le famiglie degli agenti dell'FBI che sono stati uccisi nel corso della sparatoria di Pine Ridge tra FBI e American Indian Movement (Aim), nel 1975, hanno diritto alla giustizia, ma questa non sarà ottenuta continuando a tenerlo in prigione".
Riguardo alla vicenda giudiziaria in questione, nel 2003 i giudici del 10° Circuito dichiararono: "Gran parte del comportamento del governo nella riserva di Pine Ridge su quanto è accaduto a proposito del Sig Peltier, è da condannare. Il governo ha trattenuto delle prove. Ha intimidito testimoni. Questi fatti non sono contestabili”.
Prima della decisione di Obama, Martin Garbus, l'avvocato di Peltier, aveva scritto su Democracy Now: “un rifiuto di Obama di concedere la grazia a Leonard equivarrebbe a decretare la sua morte”. Purtroppo una mail giuntagli dall’Ufficio del Procuratore per la concessione della Grazia gli ha notificato la decisione: “La domanda di commutazione della pena del vostro cliente, il signor Leonard Peltier, è stata attentamente valutata in questo ufficio e alla Casa Bianca, e la decisione che abbiamo raggiunto è che la decisione favorevole alla richiesta del vostro cliente non trova giustificazione. La richiesta del suo cliente è stata quindi respinta dal presidente il 18 gennaio 2017. In base alla Costituzione vigente, la decisione è inappellabile.”
Gli emblemi del dissenso politico, soprattutto se appartengono a minoranze etniche, non sono minimamente tollerati negli Stati uniti, quindi non hanno scampo. Ne sa qualcosa anche l’altro prigioniero politico, Mumia Abu Jamal, destinato come Peltier a marcire in prigione fino alla fine dei suoi giorni.
In tema di diritti umani, gli Stati uniti, che percentualmente sono i campioni mondiali delle incarcerazioni, come risulta anche dagli ultimi dati dello stesso Dipartimento di Giustizia, dovrebbero occupare gli scantinati della vergogna e del disonore e ormai in questo ambito non fa differenza se il presidente di turno sia democratico o repubblicano. Inutile quindi aspettarsi qualcosa di buono da Donald Trump.
Nonostante lo stesso procuratore capo nel caso Peltier ed ex procuratore degli Stati uniti James H. Reynolds avesse invitato Obama a concedere la clemenza, affermando che il rilascio del prigioniero Lakota sarebbe stato "nell'interesse della giustizia", la decisione del premio Nobel preventivo per la Pace ha messo una pietra tombale sulla vicenda del leader dell’Aim, ormai 72enne, condannandolo irrimediabilmente a morire in prigione. Un commiato stonato e disumano che forse Obama poteva risparmiarsi.