di Marco Cinque
https://www.agbookpublishing.com/product/gabriel-impaglione-arpa-a-bocca/
di Marco Cinque
https://www.agbookpublishing.com/product/gabriel-impaglione-arpa-a-bocca/
di Marco Cinque
Credo
che non siano tanto le parole a definire la poesia, ma è piuttosto la poesia a
definire le parole che la rappresentano. Per quanto si studi, per quanta fine grammatica
si utilizzi, per quante migliaia di idiomi si possano sapere e per quanti
celebrati autori e autrici si collezionino per ostentare la propria conoscenza,
questo non sarà mai sufficiente per accendere quel fuoco misterioso e insondabile
che esiste da ancor prima dell’avvento della parola scritta, della grammatica,
dei libri. Le descrizioni, le definizioni, le etichette che si danno alla
poesia sono infinite, tuttavia risultano immancabilmente inadeguate, parziali,
fuorvianti, strumentali, stucchevoli, persino inutili.
Spesso coloro che si definiscono e vengono definiti esperti o critici, sono dei
frustrati presuntuosi che non vogliono farsi una ragione della propria frustrazione
e allora si arrogano il diritto di imporre la loro visione soggettiva per dare
patenti di poeticità a proprio uso e consumo. Così, ogni giorno, si leva una
voce che pretende di spiegare ciò che non può essere spiegato. Così, ogni volta,
qualcuno viviseziona un corpo poetico per cercare di capire dove può trovare il
suo cuore, i suoi polmoni, i suoi muscoli, la sua pelle ma, quando rimette assieme
i pezzi per dar loro una parvenza di vita, ciò che resta è solo un cadavere
smembrato e in putrefazione. Così, ad ogni occasione, cercando di spiegare i
perché e i per come della poesia, la si uccide.
La rincorsa maniacale ad aggiungere
parole rare o inusuali, verbi rivoluzionari, neologismi sorprendenti, metriche
innovative, sintassi spaziali e quant’altro, non contribuisce a far trovare il
bandolo della poesia. Piuttosto che aggiungere bisognerebbe invece togliere,
depurare, liberare la poesia da tutto l’armamentario che impedisce di
intravedere il suo corpo nudo e tremante, che non permette di riconoscere in
essa uno stato dell’essere che appartiene a tutti, non solo a una casta.
Per quanto se ne possa disquisire, la poesia non può essere partorita da una
stereotipata felicità e/o da una bellezza idealizzata della vita. Che si
sappia, ogni parto prevede una gestazione, un peso, una fatica, un corpo che si
deforma, un dolore profondo, lancinante e ciò che ne scaturisce non è un canto
di gioia, ma un vagito di smarrimento, un pianto dirotto, un ancestrale urlo in
faccia alla vita. Penso perciò che la poesia nasca proprio dal dolore e dalla
sua elaborazione. Non mi sento pertanto di augurare a cuor leggero quest’idea
di poesia, così come non augurerei a nessuno la sofferenza, a meno che la
sofferenza non sia intesa come percorso di consapevolezza e guarigione,
ricordando però che si può guarire dalla menzogna, dalla finzione, dalle
illusioni, non certo dal dolore e dalle cicatrici.
Ma che senso ha la poesia per una persona senza problemi, felice e spensierata,
se non quello di permetterle di cimentarsi in un mero esercizio formale, in un
estetico assemblaggio senza alcuna profondità? Non a caso è proprio nei luoghi
più oscuri, pieni di sofferenza e disperazione, che ho visto nascere quella
luce che chiamiamo poesia ma, non essendo innocua o gradevole per chi la legge,
spesso è condannata a restare nel buio. Ho comunque potuto toccare con mano e
sperimentare in prima persona quanto i contesti disumani e impoetici possano
invece generare l’umanità della poesia, quella più autentica, quella senza padrini
& padroni o un qualunque prezzo da
corrispondere.
Di converso, è curioso osservare quanto a un crescente impoverimento della sensibilità umana, oggi minata da
derive globali di personalismi, individualismi, egocentrismi e antagonismi,
corrisponda invece una presunta fame di poesia, con centinaia di migliaia di
poeti che, per numero, potrebbero dar vita persino a un nutrito partito poetico
mondiale. Infatti, pur non avendo un mercato - in troppi scrivono e in troppo
pochi leggono -, fioccano richieste di arruolamento al nobile linguaggio, per
aggiungere il proprio nome agli sterminati elenchi dei poeti che, comunque,
resteranno sconosciuti; ma vista l’abbondanza della richiesta, ormai fioccano
anche editori trasformati in venditori di pentole, che cavalcano questa ingenua
necessità promuovendo illusioni in forma di libri, invariabilmente invenduti e da
pagare a caro prezzo dai loro stessi autori.
Disgraziatamente, l’immarcescibile narcisismo del poeta e l’influenza di una
cultura appiattita sull’esibizionismo, non fanno che accrescere il numero dei
poeti e impoverire la poesia. Quanti però sono pronti a pagare davvero, sulla
loro stessa pelle, una poesia che non risulti docile, ammaestrabile, innocua?
Se l’utilizzo di questo linguaggio ti fa rischiare la persecuzione, l’esilio,
la galera, la tortura e persino la morte, in quanti sarebbero disposti a
utilizzarlo? E perché oggi molte voci poetiche vittime di censura e di brutale
repressione, come ad esempio quelle di Ashraf Fayadh, Ericson
Acosta, Zhu Yufu, Mohamed al-Ajami, Liu Xia, Sepideh Jodeyri, Fu Ying, Habib
Shalib, Zanele Muholi, Chitra Ganesh, Rana Hamadeh, Irina Ratushinskaya e altre
e altri, per il mondo accademico, ma anche per la maggior parte dei cosiddetti
poeti, sono solo nomi tanto difficili da pronunciare, quanto facili da ignorare
o, al massimo, da dimenticare?
A chi ha fatto della poesia la propria stessa esistenza, difendendo i diritti e
la vita altrui; a chi scrive per ogni singolo ascolto e non per i burocrati della cultura che ti concedono
un premio o una medaglia; a chi paga la propria scelta qualunque prezzo, pur di
non separare le parole dalle azioni; a tutti loro andrebbe rivolto uno sguardo speciale,
più attento, più degno, per capire e imparare qualcosa sul senso della poesia.
Il resto, per lo più, sono chiacchiere ombelicali e onanismi da salotto in
forma di versi più o meno gradevoli, più o meno accattivanti, che però nulla
cambiano o cambieranno delle nostre vite.
Anche la definizione di “poeta”, spesso, coincide coi funerali della poesia,
perché in fondo cosa significa credersi o definirsi poeti? Essere poeta è forse
un mestiere o un titolo nobiliare? È forse un qualcosa che fa di te una persona
migliore e più sensibile? No, persino i peggiori criminali e gli assassini più
feroci hanno scritto poesie delicate e versi profumati. Questo fa
automaticamente di loro dei poeti e, quindi, anche delle persone più umane e
buone? Diffido dei poeti che distinguono la poesia dalla vita reale. Diffido
dei poeti quando credono che la poesia debba essere al di sopra e al di fuori
della politica alta, delle ideologie nobili, dei valori universali. Chi fa questo
per me confonde la poesia con la dattilografia.
Io stesso, pur avendo pubblicato un buon numero di libri di poesia, mi chiedo
perché provo ogni volta un profondo disagio, direi quasi un fastidio, quando mi
sento definire “poeta”. Non è una forma di snobismo o un modo per atteggiarsi al
ribelle di turno che va controcorrente, ma è proprio che non amo e non mi
riconosco in questa definizione che, fosse per me, abolirei senza alcun rimorso.
Inoltre se, come già detto, la poesia è davvero uno stato dell’essere che
appartiene a tutti, dire a qualcuno che è un poeta è inutile e superfluo, perché
è come se gli si dicesse che è un essere umano. E poi, in fondo, non è forse
vero che la poesia sopravvive sempre a chi la scrive?
Forse non ho aggiunto o tolto nulla a ciò che è stato già detto e scritto, di
certo non ho risolto dubbi o inaugurato altre frontiere con nuovi adepti, perché
sono già sufficienti le innumerevoli correnti che oggi si intestano stili e
forme poetiche, lasciando però che il mondo vada in fiamme. Direi quindi che
basta, che di quella roba non se ne può più, ma voglio solo ribadire la
convinzione che le nostre vite possono migliorare solo raggiungendo un’equità e
una giustizia sociale che ci permetta di aprire le porte e abbattere i muri,
sia dentro che fuori di noi. Per arrivare anche solo a immaginare di raggiungere
qualcosa di simile, la poesia potrebbe tornare utile, a patto che non resti sul
suo piedistallo e si apra al resto degli altri linguaggi. A patto che si materializzi
finalmente quella “scuola della Poesia” sognata da Leo Ferrè, in cui egli
concludeva: “… I versi devono fare l’amore
nella testa dei popoli / alla scuola della poesia non si impara, ci si batte!”