IL
POETA OPERAIO
Marco Cinque
Oggi
78enne, il poeta e scrittore autodidatta Ferruccio Brugnaro ha
iniziato a lavorare negli anni ‘50 come operaio a Porto Marghera,
facendo parte per molto tempo del
Consiglio di Fabbrica Montefibre-Montedison, dove per decenni è
stato una delle figure di spicco delle lotte del movimento operaio.
Pertanto
da molti è conosciuto come il “poeta operaio” e
attualmente rappresenta uno dei pilastri viventi della poesia
contemporanea italiana. Divulgato negli Stati uniti da Jack
Hirschman, suo amico, traduttore ed emblema della controcultura
statunitense, Brugnaro è stato tradotto anche in paesi come
Cina, Francia, Germania, Inghilterra e Grecia.
Nel 1965 Ferruccio
inizia a pensare che la poesia può essere un linguaggio molto
efficace per denunciare soprusi e rivendicare diritti, così
decide di ciclostilare su volantini e distribuire le sue opere nelle
periferie, nelle scuole, tra i lavoratori delle fabbriche. Alcune sue
poesie degli anni ‘70 si possono persino leggere tra i murales di
Orgosolo. Ma anche il suo impegno in sostegno della pace è
intenso: ad esempio, nel
1990 furono affissi più di 500 manifesti sui muri di Venezia e
di Mestre, che riportavano una sua poesia contro la guerra.
La
sua poetica senza padrini né padroni risulta difficile da
“inquadrare” per l’incipriato universo critico e accademico ed
è alquanto arduo per i pseudo-depositari della letteratura
nostrana riuscire a darne uno straccio di definizione sensata, che
descriva il valore espresso dalla sua lunga e impegnata militanza di
autore, tanto apprezzato fuori dai confini nazionali quanto
pressoché ignorato da un mondo culturale salottiero,
autoreferenziale e sempre più ostaggio di un business
editoriale notoriamente in mano ai pochi e soliti noti che ben
conosciamo.
Una raccolta di sue poesie dal titolo Le
follie non sono più follie,
è stata quest’anno pubblicata per le edizioni SEAM, con una
prefazione di Igor Costanzo. Illuminanti molti dei suoi testi, ancora
talmente attuali da sembrare quasi impossibile siano stati scritti
negli anni ’70: “La crisi, c’è la crisi. / Non vedete,
non capite compagni che c’è la crisi / il padrone non ce la
fa più / non può più sostenere questa
situazione. / Diamogli una mano compagni / (…) non chiediamo più
aumenti salariali, / non occorre andare più in pensione /
aboliamo le ferie / (…) bisogna lasciare stare le lotte, i
contratti. / La produzione, il profitto, i padroni / compagni / sono
in pericolo / accorriamo, accorriamo compatti, / C’e la crisi”.
Ferruccio non scrive per se stesso, lo fa per gli altri e gli
altri per lui non sono una casta letteraria o un’elite culturale,
ma il popolo, la gente comune, gli sfruttati, i perseguitati, gli
sconfitti, gli “ultimi” di ogni estrazione e latitudine che lui
canta in testi pieni di forza, passione, tenerezza. Non vuole
dimostrare, ma mostrare. Non esibire, ma donare. Più che un
operaio Ferruccio è un contadino delle parole, semina versi
che andrebbero adottati soprattutto dalle ragazze e dai ragazzi delle
scuole, letti da soli o in gruppo, lasciati sulla pagina o divulgati
ad alta voce nelle strade, nelle piazze, nelle carceri, nei luoghi
della sofferenza e in quelli dove ci si incontra e si cresce.
In
questo autore straordinario emerge soprattutto una coerenza
irriducibile, che non lascia separate le parole dai fatti, la poesia
dall’azione, la cultura dalla lotta. E la coerenza, si sa, oggi è
divenuta una merce davvero rara. Mai come adesso, in questi tempi di
deprivazione dei diritti, di spoliazione delle conquiste sociali e
civili e di guerre sempre più sanguinose, c’è
necessità di restare umani e di farlo anche attraverso la
parola poetica di Ferruccio Brugnaro: “Le guerre non prevarranno /
non avranno l’ultima parola. / E’ nata Piera Maria. / La gioia
strepita sui davanzali del mondo. / La vita trionfa”.
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