ALIAS – novembre 1998
Balla coi cervi
di Marco
Cinque
Percorrendo
all’indietro i sentieri di note dei nativi d’America, troviamo un ricchissimo
patrimonio espresso, per lo più, nelle cerimonie sacre, nei pow wow (incontri intertribali), nelle survival schools (dove si insegna la
cultura orale, propria dei nativi americani, apprendendo le specifiche identità
e peculiarità), e negli album che raccolgono brani troppo etnici per essere
capiti ed apprezzati dal vasto mercato mondiale della musica. In quest’ultimo
caso, l’inevitabile scollamento delle note dalla parte figurata della musica
tribale, determina anche una sua più difficile comprensione.
Negli amerindi il suono
ha avuto sempre un valore altamente spirituale e sacrale. Questo è un ulteriore
motivo che ne impedisce, particolarmente nelle composizioni di carattere
religioso, una commercializzazione selvaggia e una conseguente svendita dei
loro patrimoni culturali e musicali.
Le “voci di dentro” che
esprimono le note intrise di pathos ancestrale, sono legate sostanzialmente ai
riti e alle cerimonie sacre dei nativi. Tutte le varie deer dance, peyote dance,
eagle dance, sun dance, ecc., si manifestano attraverso i suoni, coi passi
cerimoniali e nei significati simbolici espressi con l’abbigliamento e gli accessori
sacri.
La musica nativa è
talvolta legata e interconnessa ad una sensazione poco gradita: la sofferenza.
Ma il suono lenisce il dolore, è medicina per l’anima e per il corpo e
favorisce il contatto col mondo magico e visionario.
I partecipanti alle
cerimonie più dure sono sostenuti da una solida impalcatura di suoni; siano
questi sibili di fischietti o pulsare di tamburi, raschio dei suonatori di
raspe o i suoni gracchianti dei sonagli di zucche. La sofferenza si attenua
avvolta in una “trance” di note che infondono coraggio, fiducia,
determinazione. Come ad esempio nella sofferta sun dance, dove ci si lascia lacerare le carni dei pettorali,
fischiando ininterrottamente in un fischietto d’osso o di canna e danzando tra
battiti di tamburo. O nella diffusissima sweat
lodge (capanna sudatoria), dove talvolta si intonano canti che rievocano il
ricordo ancestrale del travaglio della nascita. Nella sweat lodge è buio, caldo, umido e tutti quelli che vi partecipano
sono nudi: un esplicito riferimento simbolico al ritorno nell’utero materno,
dove si appianano i conflitti e dove tutti tornano uguali.
Ma il dolore che
accompagna le musiche nelle cerimonie sacre non ha, come si potrebbe pensare,
significati “masochistici” o retaggi di arcaico autolesionismo; funziona invece
come rito di passaggio.
Tra gli indiani yaqui,
che sono circa 30mila e vivono tra il Messico e l’Arizona, una delle cerimonie
più diffuse è la deer dance (Danza
del Cervo). Qui il danzatore si adorna con una testa di cervo fissata sul capo e
con gli occhi bendati da un panno, a simboleggiare il mondo visto attraverso
gli occhi dell’animale. Dalle estremità delle corna pendono dei fazzoletti
variopinti e il danzatore – accompagnato dal ritmo dei tamburi ad acqua, dal
suono del flauto e dallo sfregamento delle raspe – imposta i suoi passi
impugnando due gourd rattles, cioè
sonagli di zucca. L’intero addobbo si chiama rihutiam e rappresenta lo spirito di tutti i cervi che sono morti
per far vivere gli umani. Se ci si concentra sulla testa del quadrupede, senza
badare al danzatore, si ha la netta impressione di assistere alle movenze di un
vero cervo. Per gli yaqui, il cervo (o Maso)
è considerato come un fratello: saai maso
è infatti la parola yaqui per dire “Fratello Cervo”.
Per farsi apprezzare
dal resto del mondo, la musica nativa sta uscendo dai suoi percorsi sacri e dai
riti cerimoniali; parlando (anche) l’inglese e intonando note occidentalizzate,
però, mai dimentica dell’identità e dell’eredità lasciatale dai padri. Una
musica, quindi, che si presta volentieri a farsi “contaminare”, ma che non
cancella in nessun modo il ricordo di essere se stessa.
Nessun commento:
Posta un commento