OMBRE ROSSE A SAN QUENTIN
Reportage e intervista al condannato Fernando Eros Caro, indiano di ascendenza yaqui prigioniero da oltre 26 anni nel braccio della morte di San Quentin
Marco Cinque, San Francisco
“Proprio un bel posto per
passarci una buona vacanza”, è la prima cosa che ti frulla per la testa alla
vista della baia che ospita il complesso carcerario di San Quentin. E magari
almeno il 70% dei cittadini americani si chiederebbe: “perché mai ospitare, a
spese dei contribuenti, dei criminali in un luogo così incantevole?”.
Sono andato trovare un mio
vecchio amico fraterno, Fernando Eros Caro, un indiano yaqui rinchiuso da più
di un quarto di secolo in questa città penitenziaria, con l’accusa di duplice
omicidio. Naturalmente, il suo caso giudiziario è la fotocopia di migliaia di
altri casi, immancabilmente segnati da razzismo, pregiudizio e discriminazione,
dove soprattutto chi è povero e con l’aggravante di appartenere a una qualche
minoranza, ha le carte in regola per entrare a far parte delle schiere dei dead
man walking statunitensi.
Nel braccio della morte
All’ingresso trovo una fila di
persone in attesa. Sono congiunti e amici che vanno a visitare i prigionieri
nel braccio. Sui muri dei corridoi campeggiano avvertenze per il pubblico,
specialmente divieti categorici, persino riguardo al taglio e al colore degli
abiti: castigati, senza scollature o aderenze eccessive e con una limitatissima
varietà cromatica consentita.
Quando finalmente arriva il mio
turno, mi accorgo con sorpresa che il personale carcerario è sì fermo, ma anche
molto gentile e talvolta persino sorridente. Un timbro con inchiostro
invisibile sull’avambraccio conclude le operazioni di controllo. Ti passano al
setaccio per evidenti ragioni di sicurezza, mica per degradarti. Già, la
sicurezza, ormai solo pronunciarla questa parola evoca incubi e ti fa scorrere
un brivido lungo la schiena.
Si cammina lungo una linea
gialla, sotto un sole che picchia, prima di arrivare a uno dei due accessi che conducono alle sale delle visite. Qui,
ancora lo sbarramento di due massicci cancelli elettronici. Credo che le
prigioni abbiano più porte e serrature di qualsiasi altro edificio, anche se
aprirle è consentito esclusivamente al personale carcerario.
L’incontro
Fernando mi aspetta in piedi,
ammanettato con le mani dietro la schiena, in una gabbia per polli in stile
Guantanamo. È sorridente e i suoi occhi sprizzano una gran felicità, perché
finalmente sono arrivato. Prima di poterlo salutare, però, devo aspettare che
il secondino svolga tutta la rituale prassi del caso.
Seduti uno di fronte all’altro
iniziamo a chiacchierare di tutto, dalla politica alla filosofia, dall’ambiente
alla spiritualità e lui, malgrado sia stato tagliato fuori dal mondo da 26
anni, è in grado di intavolare discorsi attuali, colti, profondi. Ci guardiamo
e ci tocchiamo continuamente per convincerci di essere davvero l’uno davanti
all’altro. Con un geniale italiano da autodidatta e un sorriso accattivante che
lui porta sempre stampato sul volto, mi parla del suo caso e dei progetti da
realizzare. È un bravissimo pittore ed
oltre alle esposizioni organizzate da me e dai suoi sostenitori europei, ora
sta lavorando a un libro di leggende e poesie del suo popolo yaqui, per
trasmetterne retaggi e saperi.
La vita nel braccio
Si rabbuia quando gli chiedo di
raccontarmi del luogo dove vive: “Ogni piano dell’edificio principale è
composto da due blocchi” – dice – “e ciascun blocco conta 57 celle da
moltiplicare per cinque piani. Non puoi vedere il mondo fuori e nemmeno
stenderci le braccia nel tuo sgabuzzino di cemento di un metro e mezzo per due
metri e settanta. Del cibo poi meglio non parlarne: qui non mangiamo, veniamo
nutriti! Spesso, quando vedo quei vassoi di robaccia fredda e nauseabonda, ne
rovescio direttamente il contenuto nel water.
Dalle tubature fatiscenti
dell’edificio trasuda in abbondanza dell’acqua fetida che dai piani superiori
passa a quelli sottostanti. Così gli ambienti dove viviamo sono terribilmente
umidi, malsani e pieni di batteri. Freddissimi d’inverno e asfissianti
d’estate. L’assistenza sanitaria poi è una barzelletta. L’altro giorno il
medico che mi ha visitato ha esclamato: “Ma lei ha urgente bisogno di
vitamine”. Peccato non sappia che la frutta ci è stata totalmente preclusa da
almeno sei anni.
Il braccio della morte è un
giorno agonizzante dopo l’altro e tu lo devi vivere col suo tanfo
insopportabile e con un chiasso ininterrotto fatto di urla di secondini e
detenuti, clangore di porte ferrate, tintinnio freddo di manette e catene e
ogni altra sorta di rumore che non ti mette affatto di buon umore. Siamo
sottoposti a ogni tipo di tortura, fisica e mentale, come se ammazzarci non
fosse già abbastanza. E sai perché non ci gassano più come hanno imparato dai
nazisti? Perché l’ultima volta che l’hanno fatto, malauguratamente, hanno
concesso a una televisione di riprendere l’esecuzione e quell’agonia orribile
non ha avuto un buon effetto sull’opinione pubblica”.
Gli altri ospiti del braccio
Mentre parliamo, dalla nostra
gabbia posso vedere quelle dove gli altri prigionieri intrattengono le loro
visite. La cosa sorprendente è che la maggior parte di loro ha volti e
atteggiamenti lontani anni luce dallo stereotipo che dipinge i condannati a
morte come una sorta di cani rabbiosi e pericolosi. Con parecchi riesco persino
a scherzare, intrattenendo battute e saluti.
Ma è scioccante dover constatare la gran quantità di bambini, alcuni
piccolissimi, distribuiti in varie celle.
Una bimba ispanica è
tristissima, ha gli occhi rossi e inizia a singhiozzare disperatamente quando
la madre la riporta fuori, a visita terminata. Confido a Fernando di essere
piuttosto sorpreso dalla relativa gentilezza dei secondini. “Mandano qui i
migliori” – sussurra – “perché la gente creda che ci trattano bene. In verità
la maggior parte di loro è sempre arrabbiata e cerca qualsiasi pretesto per
sfogare sui prigionieri la propria rabbia, la propria frustrazione. Nessuno li
controlla se abusano del loro potere, anche perché rappresentano una lobby
elettorale compatta e potente. Quasi
tutti sostengono Bush e tutta la sua cricca di repubblicani che si ingrassano
con le prigioni, il petrolio e le guerre”.
A due celle da noi c’è Jack, un
detenuto conoscente di Fernando che ci saluta. Ha la faccia devastata e il
corpo piegato. “Lo pestano tutti, guardie e prigionieri, solo perché è un
solitario”. Ma non c’è bisogno che Fernando aggiunga altro, perché se provo a
guardare nella direzione di Jack, quelle pochissime volte che lui alza il capo,
invece dello sguardo incontro un abisso di dolore e disperazione. È un uomo
spezzato, a cui hanno fatto saltare tutti i denti, sfondato un timpano,
devastato gli occhi. Vorrei urlare, piangere, tirarlo fuori di lì. Fin da
bambino è stato seviziato, lo svela il tatuaggio che porta come il marchio di
un destino già segnato: “non mi fido degli uomini”.
Il dono
Fernando ruota furtivamente gli
occhi in tutte le direzioni, come se stesse cercando qualcosa, poi bisbiglia:
“devo darti una cosa importante, ho qui un regalo per te”. “Sei matto?”, gli rispondo: è una cosa
proibitissima scambiare qualsiasi oggetto tra detenuti e visitatori. Potrebbe
passare un sacco di guai, ma lui mi rassicura con uno dei suoi sorrisi magici.
Quindi, tira fuori una collana di pelle intrecciata da cui pende uno splendido
medaglione intarsiato di perline che ritraggono un’aquila stilizzata. È un dono
bellissimo, che lui ha fatto per me con le sue mani. Poi benedice la collana e
me la fa indossare, nascosta sotto la camicia. “Un’aquila non può stare
prigioniera, deve essere libera di andare” – scandisce – “portala con te e
porterai fuori anche una parte di me. Nessuno dei secondini vedrà il mio
spirito accompagnarti, stai tranquillo”. “Puoi scommetterci, fratello”, ribatto
col tono di chi sembra aver organizzato chissà quale evasione invece di un
innocente scambio di doni.
La visita finisce, restiamo
abbracciati come fratelli, per un lungo tempo. Abbracciare una persona
condannata a morte è un’esperienza difficile da raccontare: è stato quasi come
se gli avessi lasciato una fetta della mia libertà, per portarmi via almeno una
goccia di quel mare di sofferenza senza scampo.
Dopo la visita
Fuori c’è un bel sole e la
forte brezza profumata dell’oceano Pacifico spazza l’ampio parcheggio interno
di San Quentin, dove secondini e addetti s’incrociano, si parlano, si salutano.
Alcuni se ne vanno, altri arrivano. Sembrerebbe tutto a posto, tutto
tranquillo, tranne il fatto che il loro non è un lavoro qualsiasi. Siamo in un
mattatoio per umani dalle vite a perdere e la cosiddetta “normalità
dell’orrore” abita profondamente le coscienze sopite della maggior parte delle
persone di questo luogo, ma si direbbe anche dell’intero Paese.
Dopo l’incontro, mi arrampico
su una collinetta rivolta proprio verso il penitenziario, tiro fuori il
medaglione e poi, rivolto in direzione di quel muro di lacrime, recito il
saluto yaqui appena insegnatomi da Fernando, pensando alle sue ultime parole
prima di salutarci: “Lasciati attraversare dal vento, solo così conoscerai il
suo colore”.
Nessun commento:
Posta un commento