ALIAS
venerdì 13 febbraio 1998
FUORI RISERVA
Suono, memoria
FUORI RISERVA
Suono, memoria
di Marco
Cinque
La musica dei nativi d’America,
s’intende quella più tradizionale, può risultare alquanto “indigesta”. Uno dei
motivi è la sua estrapolazione dai contesti originari. Infatti si parla di un
percorso comunicativo che non si avvale esclusivamente del messaggio uditivo,
ma che è un insieme di espressioni da collocarsi nella più appropriata
definizione di “drammatizzazione”: i passi di danza, le movenze, i paramenti, i
colori, ecc., sono “note altre” che insieme alle note suonate e ai canti si
fondono in un unico sentiero musicale, sia questo fatto di passioni e di perdite,
di ombre e di luci, di vita e di morte; ma, soprattutto di memoria. Per i
nativi la memoria è fonte di tutto, del loro presente, dei loro sogni. E’ un
sapere da raccontare e tramandare, anche con le note.
E’ una musica, quella
nativa, che si compone senza mai dimenticare le sue radici, le sue origini.
Anche nelle versioni più moderne e sofisticate troviamo abbondanti tracce che
rimandano a un passato ancestrale mai seppellito. E i generi musicali con i
quali la tradizione amerindiana si complementa sono praticamente tutti: dal
country al folk, dal rock al jazz, dal blues al rap, fino ad arrivare alle
suggestioni della new age. Gli autori nativi quindi non disdegnano la musica
non-nativa (“bianca” o “nera” che sia), ma non si convertono mai completamente,
non lasciano cancellare i loro retaggi, al contrario, si identificano ancor oggi
nella famosa frase di Toro Seduto: “Prendete ciò che c’è di buono dalla cultura
dell’uomo bianco e lasciate perdere il resto…”. Il “resto”, nel campo della
musica occidentale, lo troviamo proprio nell’assenza sempre più frequente di memoria
e in una tendenza autocelebrativa della razza umana, soprattutto quella “civilizzata”.
Una pianta senza radici resta verde per poco, così anche la maggior parte delle
composizioni musicali contemporanee: si limitano ad essere merce che si tramanda
al massimo per un paio di stagioni. E’ proprio a causa di questa assenza di
memoria che tante composizioni non possono essere apprezzate se non al momento
del loro confezionamento. Così è. Senza radici la musica resta muta. Per i
nativi, inoltre, la musica non è propriamente nata con loro, ma con la terra.
Con la Madre Terra. Ed è con essa che si svela: il sibilo del vento, lo
scorrere del ruscello, lo sciogliersi del tuono, il ticchettio ritmico della
pioggia. Tutto ciò è musica, Sono musica il grido penetrante dell’aquila, il
magico ululato del lupo, il canto della civetta. Sono musica ancor prima dell’avvento
della specie umana.
Da questo concerto
ancestrale i popoli amerindi hanno sempre tratto la loro ispirazione, coniando
note senza tempo, tramandando di bocca in bocca, di strumento in strumento, fino
alle ultime generazioni, la storia della loro esistenza. “Antichi tamburi di
guerra stanno battendo nel mio cuore”, sembra essere il canto di rivincita del “Popolo
Rosso” che, stanco di percorrere sentieri di lacrime, sta prendendo sempre più
spazio nell’universo letterario, cinematografico e musicale. Una “rinascita” di
cui molti si stanno accorgendo. Lo testimoniano, infatti, le innumerevoli
pubblicazioni librarie, le produzioni di film (si è da poco concluso il
Sundance Festival che ha consacrato il successo di molti film “indiani”, tra
cui “Smoke Signal”, il primo interamente scritto, prodotto, diretto e
interpretato da nativi americani) e, non ultimi, gli album musicali.
Ma non sono
esclusivamente nativi gli autori di musica “nativa”, al loro filone etnico si
vanno convertendo schiere sempre più numerose di artisti non-nativi, affascinati
o semplicemente interessati da una musicalità e da una ritmica antica e nuova
al contempo. “Arrivano i nostri”, dunque, ma sembra che stavolta non saranno i “visi
pallidi” a galoppare verso la gloria.
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