RiEvoluzione Poetica

giovedì 26 novembre 2015

FREE ASHRAF FAYADH

Ashraf Fayadh è un poeta e artista palestinese, nato e residente in Arabia Saudita, condannato a morte da un tribunale del suo paese. Oltre alle diverse accuse verso i sauditi, in merito al loro coinvolgimento nel finanziamento ai terroristi dell'Isis e riguardo alle loro recenti azioni di guerra, con bombardamenti che stanno facendo strage di civili nello Yemen, anche la loro fama di brutali forcaioli, degni del medioevo più oscurantista, si va continuamente rafforzando.
Dopo i casi di Raif Badawi, condannato a 1000 frustate per reati di opinione e di Ali Mohammed Baqir al-Nimr, condannato a morte per aver partecipato, quando aveva 17 anni, a manifestazioni antigovernative, adesso è il turno del 35enne Ashraf Fayadh, colpevole di apostasia e di aver promosso l’ateismo con i suoi testi inclusi nell’antologia poetica Instructions within, pubblicata nel 2008.
Prima della condanna alla pena capitale, emessa il 17 novembre, Fayadh aveva subito altri 2 arresti: il 6 agosto 2013 e il 1 gennaio 2014, a seguito dei quali fu condannato a 4 anni di carcere e 800 frustate. Ma la corte d'appello, dopo un ricorso respinto, ha ora provveduto a rincarare la dose, nonostante il pentimento manifestato dall'accusato, con una sentenza che dovrebbe prevedere per lui l'arcaica decapitazione con una scimitarra, a seguito della quale il suo corpo verrà crocifisso fino alla putrefazione. E' questa una delle tecniche, oltre all'impiccagione e alla lapidazione, utilizzata dal regime saudita per ammazzare i propri cittadini. In alcuni casi, per non scoprire il capo, alle donne viene concesso un colpo di pistola alla nuca. Le esecuzioni avvengono solitamente in pubblica piazza, davanti alla moschea.
L'Arabia Saudita, in rapporto percentuale alla cittadinanza, è tra i primi paesi al mondo nell'ingloriosa classifica degli omicidi di stato; nonostante ciò, risulta alquanto grottesco che proprio l'ambasciatore saudita presso le Nazioni unite, Faisal bin Hassan Thad, abbia recentemente ricevuto l'incarico ufficiale di presiedere il comitato consultvo del Consiglio Onu per i diritti umani. La poeta e attivista per i diritti dei migranti, Mona Kareem, ha rivelato al Guardian che a Fayadh, in palese violazione del diritto nazionale e internazionale, non è stato concesso di avere un avvocato, poiché dal giorno del suo arresto è stato privato dei documenti d'identità e discriminato per il fatto di essere palestinese.
Nel 2013 Fayadh è stato tra gli artisti che hanno curato la mostra Rhizoma alla Biennale di Venezia ed è anche rappresentante di Edge of Arabia, un'organizzazione di artisti britannico-saudita.
Molte organizzazioni si stanno mobilitando per il poeta palestinese, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International, quest'ultima ha definito Ashraf Fayadh un prigioniero di coscienza. Si sono aperte anche svariate iniziative di sostegno in Rete, con petizioni e raccolte di firme. Il poeta statunitense Jack Hirschman, emblema della controcultura del suo paese e fondatore delle Revolutionary Poets Brigade, ha indetto una giornata internazionale di protesta per il 14 dicembre, invitando i poeti di tutto il mondo a mobilitarsi coi loro versi, da dedicare alla causa del poeta condannato a morte.
Il gruppo romano Rome's Revolutionary Poets Brigade, assieme ad altri gruppi di poeti e poete della capitale, aderisce con convinzione all'appello lanciato da Hirschman e indice una serata poetica, con letture e musica, per venerdì 11 dicembre, presso l'A.I.A.S.P. Casa dei Popoli di Roma, in viale Irpinia 50, ore 20,30.
Di certo la poesia non salverà il mondo, ma si spera possa salvare almeno una vita umana.

Marco Cinque

lunedì 5 ottobre 2015

MARCOS VINICIUS, il seminatore di note


Il grande chitarrista classico brasiliano sarà a Roma presso l’AIMART, l’Accademia di Musica e Arti.

di Marco Cinque

 

In musica una nota è una nota: un “do” è sempre un “do”, un “sol” è un”sol”, così come il pentagramma che le ospita è ogni volta immancabilmente il medesimo, composto da cinque linee parallele. Quando ascoltiamo o eseguiamo un brano da uno spartito, quindi, non dovrebbe esserci nulla che metta in discussione tale principio; ma se questo è l’unico dettato che determina e su cui si basa l’universo sonoro, allora la musica stessa si riduce a un freddo calcolo matematico incapace di sorprendere, meravigliare, emozionare, inventare e reinventarsi.
Può sembrare strano eppure, anche in quella che ci sembra una singola nota, esatta ed assoluta, vivono invece un’infinità di mondi e sfumature capaci di renderla ogni volta unica, inimitabile, uguale eppure diversa sia da quella precedente che da quella successiva. Qui entra in gioco la capacità dell’essere umano che, pur se meravigliosamente imperfetto, a differenza di un dispositivo meccanico o elettronico, è capace di dare ad ogni componimento scritto una sua propria specifica lettura. Ciò significa che l’artista non esegue semplicemente come un registratore, ma interpreta con la sua sensibilità l’assieme di spazi sonori che, unitamente agli spazi di silenzio, generano la complessità della musica stessa, unendola simbioticamente a quella propria che abita la sua anima e il suo spirito.
Ho avuto il privilegio e la buona fortuna di incontrare e ascoltare artisti che, senza la necessità di alcuna spiegazione o specifica lezione, mi hanno trasmesso questa consapevolezza, senza la quale la musica si ridurrebbe a mera esecuzione, la poesia a un esercizio di scrittura e ogni altra forma di arte a un’occasione per mostrare il proprio ombelico, come se questo fosse il centro del mondo.
Uno di questi è Marcos Vinicius, un musicista, virtuoso, compositore, concertista, educatore a cui tutte queste definizioni vanno comunque strette e non rivelano il suo autentico spessore. Passione e dedizione, estasi e fatica fanno di Marcos un artista che non marca alcuna distanza tra la sua musica e la sua vita. Lui è la sua musica e viceversa, in un equilibrio variabile che va continuamente nutrito e curato e che non permette mediazioni strumentali o distrazioni sterili, pena il decadimento del sacro fuoco che lo rende una sorta di “poeta-contadino” della chitarra classica, poiché da una parte sonda gli sprofondi dell’animo, mentre dall’altra semina quotidianamente tra le giovani generazioni.
La sua opera febbrile costituisce per lui un’urgenza, necessaria come il mangiare, il bere e il respirare. Quando interagisce col pubblico, con gli studenti, col mondo che lo circonda, Marcos stabilisce un percorso di reciprocità che annulla le distanze, le barriere e persino le convenzioni riposte nei ruoli, riportando la musica nel suo alveo più alto: quello che fa di noi degli esseri umani ancora degni di chiamarci tali.
Marcos non ama le etichette generalizzanti, i facili stereotipi: pur se brasiliano infatti lui rifugge il cliché della “brasilianità”, come non permetterebbe mai, anche se attualmente vive in Italia, quello dell’”italianità”. Questi luoghi comuni, che determinano un’appartenenza o una sorta di campanilismo, se da un lato renderebbero materialmente più conveniente e redditizia la sua carriera professionale, dall’altro toglierebbero alla sua musica quell’universalità che è il suo faro, il suo viaggio, il suo approdo.
Da quando, a soli otto anni, ha incontrato la sua prima chitarra, Marcos ne ha fatto lo strumento per coltivare il proprio spirito e per donarne poi i germogli. Da allora quel bambino continua ad abitarlo, a tenerlo per mano, a condurlo e a farsi condurre e persino il suo volto di uomo maturo ha saputo mantenere quello sguardo ingenuo e pieno di sogni. So che il rispetto e il pudore gli impongono il sorriso, che è ciò che Marcos mostra al mondo, ma so pure che dietro quel sorriso così dirompente si cela un tormento, un disagio profondo e reale che lui cerca di curare con la medicina della musica. È il dolore che lo apparenta all’altrui dolore, quello degli ultimi, degli sconfitti, degli invisibili. Un dolore che lo porta tra i detenuti, al fianco dei bambini che le società ricche e opulente lasciano morire di fame, vicino alle donne abusate, ad impegnarsi in prima persona per i diritti umani violati. “L’avere il cuore infranto è l’inizio di ogni vera accoglienza”, scriveva il grande poeta statunitense Jack Hirschman, ed è proprio in questi versi che io riconosco lo spessore umano e artistico di Marcos.
Purtroppo siamo alle soglie di un mostruoso decadimento socioculturale, e un nuovo medioevo quindi si prospetta; i segnali che lo rivelano purtroppo sono evidenti: “con la cultura non si mangia”, è infatti il leit motiv di questi ultimi governi. Ne conseguono tagli spietati all’unico patrimonio che potrebbe alimentare e mantenere l’intero Paese. Le prospettive nefaste di un mondo senza arte né cultura trasformerebbe inevitabilmente le persone in involucri di carne ed ossa, consumatori e consumati facilmente controllabili e gestibili dal despota di turno. Invece di promuovere e incentivare le uniche vere risorse che abbiamo in Italia, si sacrifica tutto ciò che c’è di buono sull’altare del sacro business: la scuola pubblica è umiliata, le accademie decadono, lo storico conservatorio romano non seguirà più il Pe-accademico, le iniziative culturali più sensate vengono spazzate via dalle becere logiche del profitto. Come porre un argine a tanto crescente degrado?
Nel suo piccolo Marcos, assieme ad altri illustri esponenti della musica e dell’arte tutta, sta attualmente tentando di porre un freno a questa inarrestabile deriva, attraverso l’adesione al progetto AIMART, cioè l’Accademia di Musica e Arti fondata proprio dall’ex direttrice, sia del Conservatorio di Santa Cecilia che della didattica al Teatro dell'Opera di Roma, Edda Silvestri, che assieme al regista Francesco Antonio Castaldo sta sperimentando un’alternativa concreta e possibile al deserto lasciato dalle disgraziate scelte governative.
L’AIMART costituirà un’opportunità a prezzi accessibili, con una formazione didattica guidata da artisti di assoluto rilievo, che formeranno praticamente in tutte le discipline: dalla musica al canto lirico, fino al teatro, cinema e danza. In questo nuovo avamposto di resistenza culturale (la sede è a via Bachelet, 12) della capitale, Marcos Vinicius sarà una delle colonne portanti, che tenterà in ogni modo di far rinascere la fenice dell’arte dalle ceneri delle insulse politiche mercantili.
Un essere umano deprivato della bellezza che nutre il suo spirito, è destinato a diventare inevitabilmente un essere disumano.
Buon viaggio dunque, caro Marcos, in quella che sarà una delle poche “guerre” che vale davvero la pena di essere combattuta: imbracciamo le nostre chitarre, i nostri flauti, armiamo le nostre voci, carichiamo i nostri corpi e affrontiamo questa barbarie con tutta la bellezza riposta nelle nostre menti e nei nostri cuori… infranti, naturalmente.

mercoledì 16 settembre 2015

SignorNò - poesie contro la guerra

SignorNò è un libro-progetto contro la guerra, pubblicato per le Edizioni SEAM, che raccoglie, nella sua prima parte, poesie di veterani Usa di Iraq e Vietnam, oltre ai contributi di refusenik israeliani, mentre la seconda parte ospita testi poetici di autori e autrici nazionali e internazionali.
Questa raccolta di versi e testimonianze, più che proporsi semplicemente come un libro (comunque dal contenuto assai povero di retorica), vuole anche essere uno strumento per realizzare progetti multimediali nel vivo del tessuto sociale, soprattutto nelle scuole e tra i giovani.
La partecipazione attiva di coloro che alla guerra hanno partecipato in prima persona, oltre ad essere un’occasione di riscatto umano, è anche un’opportunità per mostrare con disincanto le ferite interiori lasciate da un orrore che va sempre più globalizzandosi e che ormai trasforma persino i corpi militari delle nazioni in eserciti di mercenari, che hanno come loro obiettivo soprattutto il compito di far quadrare i bilanci delle multinazionali delle armi e della ricostruzione.
Dalla fine della 2° Guerra Mondiale ci sono state almeno 180 guerre, quasi tutte combattute nel Terzo Mondo, promosse e armate dall’Occidente ed hanno provocato 40 milioni di morti, oltre a centinaia di milioni di profughi. Inoltre i conflitti tendono ad assumere un’aura di moralità che non gli spetta, ingannando i cittadini dei paesi coinvolti con nomi che mistificano la vera e immutabile natura omicida di ogni guerra: “operazioni chirurgiche”, “conflitti umanitari”, “interventi preventivi”, “lotta al terrore” e via dicendo. Come ben documentato e riconosciuto, le guerre moderne hanno come inevitabile effetto collaterale quello di mietere una maggioranza di vittime civili, motivo già pienamente sufficiente per dire sempre e comunque: SignorNò!
I diritti d’autore del volume sono interamente dedicati alla causa di Fernando Eros Caro, un nativo americano di ascendenza yaqui, anche lui ex marine, prigioniero ormai da 30 anni in un loculo di un metro e mezzo per tre, nel braccio della morte californiano di San Quentin.
Ma assieme a Fernando Caro, gli Stati Uniti “ospitano” nelle loro galere circa 140.000 veterani. Inoltre, si contano mediamente ogni anno 6.200 suicidi di reduci. È come una guerra nella guerra, che continua pure fuori dai teatri bellici, una volta tornati in patria: un senzatetto su tre, infatti, è veterano, per non parlare delle malattie, spesso mortali, come la cosiddetta Sindrome del Golfo che ha contagiato 210.000 soldati USA o delle malattie mentali diagnosticate a circa 300.000 reduci statunitensi di Iraq e Afghanistan.
Ci si augura che questo libro ed il progetto ad esso collegato possano trovare attenzione e partecipazione, contribuendo a seminare un po’ di pace in un mondo sempre più ostaggio di logiche guerrafondaie che sembrano quasi impossibili da arginare, in un processo di disumanizzazione globale che si fa tanto più evidente quanto più aumenta il disinteresse, la rassegnazione e l’abitudine allo stato ormai permanente di quella che può definirsi “normalità della guerra”.
La prefazione di questo volume, realizzato e curato assieme a Phil Rushton, ci fu regalata, un po' di anni addietro, da Margherita Hack ed è ora un grande piacere poterla riproporre in una versione arricchita e allargata. Tra gli ospiti di questo viaggio collettivo per “restare umani” (per citare Arrigoni), ricordiamo Jack Hirschman, Ivo Machado, Igiaba Scego, Ibrahim Nasrallah, Ferruccio Brugnaro, Beppe Costa, Giancarlo Cavallo, l'afghano Basir Ahang, l'israeliano druso Naim Araidi, i palestinesi Mahmoud Darwish, Samih al-Qasim e Ibrahim Nasrallah, Paul Polansky e tanti/altri/e.

***

PREFAZIONE

Signornò! È la rivolta al Signorsì, all’obbedienza cieca e assoluta che si richiede ai militari, e in particolare in guerra, in omaggio al detto “My country, right or wrong” e in nome dell’amor patrio si giustificano i più orrendi delitti contro il nemico, anche se rappresentato da bambini indifesi. E’ una raccolta di pensieri, di poesie, di sfoghi di militari in guerra, che si domandano: ma non eravamo noi i buoni, i liberatori, i portatori di democrazia? Noi che ammazziamo donne ferite, bambini terrorizzati, immortalati per tutti da quella tragica fotografia della bambina vietnamita seminuda che scappa piangendo, o dal bambino ebreo con le braccia alzate prima di essere trascinato nel lager nazista, due testimonianze di quello che è stato il XX secolo.
È un grido dell’umanità ferita dalla guerra, da questa inutile pazzia dell’umanità esaltata da sempre, come dagli antichi romani: pulcrum et decorum est pro patria mori.
Quando i popoli troveranno il coraggio di rivoltarsi ai loro governi, di gridare uniti Signornò!

Margherita Hack

***

Uno dei testi dei Veterani ospitati nell'antologia:

Appunti per la protesta
dei veterani contro la guerra

di Horace Coleman

Ralph: per quel che concerne
i piani per la marcia locale
si vedano i seguenti punti:

Ho visto la stanca manifestazione a Washington,
le facce ardenti dei nostri tristi ragazzi guerrieri
che lanciavano le loro medaglie al presidente.

Credo che dovremmo emulare
ma non copiare, pertanto:
quando la delegazione arriva
al campidoglio dello stato
leggete prima la petizione:

Non abbiamo paura di uccidere.
Ci dispiace di aver assassinato
le nostre anime. Abbiamo eseguito gli ordini
ma abbiamo imparato a dire NO!

Fermatela. O vi fermeremo noi.
Non resistete. Non potete fermare
i fantasmi che siamo diventati”.

Poi, fa’ che coloro che hanno perso le gambe
si trascinino in avanti e le ammucchino
in modo ordinato.
Quindi fa’ rotolare il teschio
del tuo migliore amico ucciso
lungo la navata.

Infine, fa’ che i ciechi spingano in avanti i tetraplegici
(avranno coltelli tra i denti da dare ai legislatori
cosicché possano usarli su loro stessi). Ce ne andiamo.
Se non li usano
torniamo.

Horace

P.S. Conserva le istruzioni per i tuoi nipoti. Torneranno utili.

***

Per acquistare online SignorNò:
http://www.seamedizioni.it/prodotto/signorno/

giovedì 26 marzo 2015

Pe(n)na di Poeti

aa. vv.
Pe(n)na di Poeti
pag. 296 - euro 10
progetto e stampa a cura di:
Cooperativa l'Officina

Questo lavoro straordinario e collettivo, che corona un progetto di scrittura creativa condotto da Alberto Ramundo e dalla Cooperativa l'officina, si è trasformato in una raccolta poetica di testi scritti da donne e uomini rinchiusi nel carcere di Pesaro. Trovo superfluo aggiungere altro e lascio alle parole della prefazione scritta così generosamente da Jack Hirschman e a quelle di alcune poesie che ho qui selezionato, per esprimere il valore e la bellezza di questo volume.

PREFAZIONE

Il titolo di questo libro Pe(n)na di Poeti è molto appropriato. A Pen ha in italiano il significato di penna. Pena significa sia il dolore e la sofferenza sia la pena intesa come sanzione per chi ha commesso un reato o un'infrazione. Per questo il titolo è opportuno per un lavoro che contiene le poesie di poeti che sono in carcere.
Scrivo poeti che sono in carcere piuttosto che persone che sono in carcere per indicare che i poeti pubblicati in questo libro sono prigionieri politici, non sono “criminali”. Quest'ultima è l'accezione con cui vengono definiti in base alla legge, ma, come esseri umani che sanno creare libertà attraverso l'azione della scrittura, devono essere visti come vittime del sistema criminale di una società che ha bisogno di imprigionarli come esercito di riserva formato da operai schiavizzati.
C'è un'altra ragione per cui questo lavoro ha un valore essenziale: molti sanno che le prigioni sono le università dei poveri e degli emarginati e, in quanto tali, hanno prodotto un flusso di voci poetiche straordinarie. Posso affermare questo perché l'ho vissuto quando ho passato del tempo in prigione – per sostenere la causa dei 'senza tetto' a San Francisco – e ho incontrato detenuti che scrivevano poesia.
L'abbiamo inoltre constatato io e Agneta Falk specialmente quando abbiamo visitato il carcere di massima sicurezza nella zona settentrionale dello Stato di New York un decennio fa, invitati dalla nostra cara amica e compagna, alla fine dei suoi anni, Janine Pommy-Vega, che ha lavorato come poeta nelle prigioni in cui ha condotto sia lezioni che laboratori.
Io e Agneta siamo stati coinvolti – prima ancora che nella lettura – da alcune delle poesie più potenti mai ascoltate, tutte nello stesso anno, lette dagli stessi detenuti.
Così come sono potenti le poesie contenute in questo libro, composte per esigenze altre che non un semplice bisogno “letterario”. Queste poesie, grazie al lavoro di raccolta che Marco Cinque mi ha spedito, esprimono l'assoluta libertà-per-tutti, perfino in creazioni con conclusioni contrarie e negativamente disperate.
In ogni poesia di questo libro, troverete un elemento della lotta per la libertà, perché che cos'altro, se non un cuore fisicamente imprigionato, può percepire la vera essenza di ciò che rappresenta un raggio di luna comparato al viaggio attraverso la notte della propria anima?
Ci sono molte essenze svelate in questo libro. Il lettore frequenterà la scuola del cuore, dove l'unica lezione è la ricezione in sé.
Sappiate che siete amati!

Jack Hirschman
Brigata dei poeti rivoluzionari
San Francisco 2014

***

di Silvia Giacomelli

Quanto ti fai schifo
quando ti specchi
e vorresti solo sputarti in faccia
quando il rimorso vorrebbe ucciderti.
Quando cerchi di scherzare
e non fai ridere neanche te stessa
quando i ricordi diventano lame
gli sbagli bruciature
i rimpianti ti provocano il vomito
che non ti “libera”.
Non puoi gridare, saresti solo punita
e poi non servirebbe a niente.
Non serve piangere,
affogheresti solo nelle tue lacrime
e nella tua sorda sofferenza
non puoi arrenderti,
sarebbe solo da vigliacchi.
Cosa ti resta allora stasera
cara Silvia, maledetta stronza.
Una finestra con trentasei buchi di luce e d'aria
tra queste sbarre di ferro puzzolente.
Un saluto alle ventuno
che vorresti trasformare in baci, abbracci,
notti di passione e infine
cinquanta gocce di Mivias
per non sentire più nulla,
fino a domani.

***

di Vincenzo Lerario
GERMANA

Il tempo è andato
lo hai toccato attraverso
le mie mani,
sospesa nell'aria, libera,
sfogliando l'orizzonte
che i nostri occhi
scoprivano di volta in volta,
abbattendo la prigionia
della libertà
costruita con arte.
Arido il mare intorno a noi
discarica di pianto
e sogni morti di anime
fatte di corpi graffiati
da giudizi sommersi
di perbenisti poco perbene.
Conosci i miei occhi
ogni mattina riflessi
allo specchio del passato,
pieno di crepe
nate dalla mia menzogna,
solo per paura di vivere.
Conosci il mio respiro
quello che ci passavamo
nascosti per strada
per non annegare.
Conosci la mia rabbia
impressa in una parete bianca.
Un giorno d'agosto,
quando una bicicletta
sgangherata sul marciapiede
rompeva l'orizzonte
e i corpi diventavano corpi
del mare.


FERMATA CADORNA/MILANO

Ogni mattina
sfidavamo la noia
tra accordi improvvisati
e parole di sabbia,
nascosti dietro al molo
al riparo dal vento.
Le bottigliette di liquore mignon
rubate dalle credenze
delle nostre madri,
erano niente
rispetto a quello
che continuo a bere;
mentre tu, amico mio
al riparo da occhi,
dopo aver salutato
le montagne al sole,
un giorno di settembre
sceglievi Milano
per dire addio
a quello che da tempo
sapevi di non trovare.

***

di Enrico Suppa

OSTINAZIONE

Nell'assurdo giardino della mia vita
muoiono i fiori ma prospera l'ortica
e io continuo ad annaffiarli entrambi.


L'UOMO CHE TACE

Onda di natura primordiale, la parola,
zavorra d'esistenza, conseguenza tellurica
trasmette tutto il male che l'uomo tace.
Provato da stridori schiumosi di rivolta
è rivolto alla sua terra
goccia a goccia.

***




sabato 24 gennaio 2015

GENOCIDIO CANADESE

Abusi sessuali, sterilizzazioni di massa, assimilazioni forzate ed almeno 50mila bambini nativi morti nelle scuole cattoliche residenziali del Canada dal 1922 al 1984, senza contare tutti coloro che resteranno segnati per sempre, fisicamente e psicologicamente, dalle torture e dalle violenze subite. Nell'arco di quegli anni si è praticamente consumato un genocidio legalizzato su cui il mondo, soprattutto quello civilizzato, ha taciuto e continua a tacere.



di Marco Cinque

Da quando la tragedia delle violenze, delle sterilizzazioni, degli stupri e degli omicidi di bambini indigeni nelle scuole residenziali religiose canadesi (su 118 boarding schools, 79 erano cattoliche romane e dipendevano direttamente dalla Santa Sede) è stata resa pubblica, si sono espressi dubbi, ipotizzando una campagna di disinformazione o considerando la denuncia alla stregua di una strumentale esagerazione giornalistica: come si possono definire questi crimini, sempre che ci siano stati, addirittura un genocidio? E com’è stato possibile che nessuno tra religiosi, famiglie delle vittime e istituzioni, in tanti anni non abbiano mai denunciato le torture e gli omicidi perpetrati ai danni di decine di migliaia di bambini indiani? Ma basta approfondire molti aspetti del vecchio sistema legislativo canadese per avere le idee più chiare. Ad esempio, la Federal Indian Act del 1874, tutt’ora in vigore, ribadisce l’inferiorità legale e morale degli indigeni ed ha istituito il sistema delle scuole residenziali.




Poi la Gradual Civilization Act del 1857, legge che obbligava le famiglie indigene a firmare un documento che trasferiva alle scuole residenziali cristiane i diritti di tutela dei loro figli. Se ci si rifiutava c’era l’arresto immediato oltre a sanzioni economiche. Ma il trasferimento legale dei diritti di tutela dei minori si trasformava anche in trasferimento dei beni dei bambini deceduti, così le scuole residenziali hanno lucrato su quelle morti, appropriandosi di terre che poi rivendevano soprattuto alle multinazionali del legname.
Nella British Columbia, la Sterilization Law, approvata nel 1933 e tuttora attiva, ha consentito di far sterilizzare in maniera massiccia e pianificata qualsiasi ospite nativo delle scuole residenziali. Le sterilizzazioni sono state di frequente attuate nei confronti di interi gruppi di bambini indigeni quando questi avevano raggiunto la pubertà, in istituti quali la Provincial Training School di Red Deer, in Alberta, ed il Ponoka Mental Hospital. Probabilmente è proprio grazie a queste leggi che, all’interno delle scuole religiose, la certezza dell’impunità ha permesso che degli orrendi crimini venissero considerati semplici effetti collaterali di quel sistema.
Secondo un rapporto del dottor Peter Bryce, una buona parte delle morti dei bambini nativi nelle scuole residenziali avvenne a causa della tubercolosi. Era pratica corrente, documentata anche da un repertorio di immagini fotografiche, mescolare deliberatamente bambini sani a bambini malati. Una volta infettatati, agli ospiti degli istituti non venivano fornite cure ed erano lasciati morire. Già dal secondo decennio del secolo scorso i giornali canadesi affermavano che il tasso di mortalità dei bambini indigeni nelle boarding schools era superiore al 50% di quanti erano obbligati a frequentarle, cioè più di un bambino su due in quelle scuole ci moriva.
Oltre alle decine di migliaia di morti delle scuole residenziali, le conseguenze di questo genocidio si continuano a manifestare sui sopravvissuti, attualmente vittime di un contesto di assoluto degrado psicologico, sociale e ambientale, le cui condizioni sono definite da organismi per la tutela dei diritti umani delle Nazioni Unite, quelle di «una popolazione colonizzata al limite della sopravvivenza, con tutte le caratteristiche di una società da terzo mondo».
In merito alle scuse ufficiali dell’11/06/2008 che il presidente del Consiglio dei ministri, Stephen Harper, chiese a nome del governo canadese per gli abusi inflitti alle popolazioni indigene, è stato domandato all’ambasciatore canadese a Roma, James Fox, se in seguito ci fossero stati degli sviluppi: «La Legge Finanziaria 2010 del Governo canadese ha annunciato 199 milioni di dollari per i prossimi due anni per garantire la continuità dei servizi di igiene mentale e supporto emotivo forniti agli ex studenti e alle loro famiglie, nonché la tempestività ed efficienza delle erogazioni agli ex studenti», hanno scritto dall’ambasciata, specificando poi che «l’accordo di riconciliazione (Settlement Agreement) da corrispondere agli ex studenti che hanno risieduto presso una Scuola Residenziale Indiana, comprende elementi individuali e collettivi per il risarcimento».
Nonostante l’impegno del governo canadese riguardo i risarcimenti e la revisione di alcune leggi, non sono ancora giunte chiarificazioni in merito all’apertura di eventuali inchieste giudiziarie tese a stabilire le responsabilità dei crimini e degli omicidi avvenuti nelle boarding schools. Vale a dire che si ammettono i crimini senza però che vengano perseguiti coloro che li hanno commissionati e materialmente eseguiti.
Nessuna risposta è seguita invece alle domande rivolte all'ex papa Ratzinger e ai vertici vaticani da dodici anziani del Consiglio che rappresentano le nazioni Cree, Squamish, Haida e Metis e nessun riferimento o commento a questa tragedia risulta peraltro pervenuta dall'attuale Pontefice.
Tra le altre cose, gli anziani del Consiglio hanno chiesto di «identificare il posto dove sono sepolti i bambini morti, affinchè i loro resti vengano restituiti ai familiari per una degna sepoltura (…) Di identificare e consegnare le persone responsabili per queste morti (…) Di divulgare tutte le prove riguardanti questi decessi e i crimini commessi nelle scuole residenziali, consentendo il pubblico accesso agli archivi del Vaticano ed ai registri delle altre Chiese coinvolte (…) Di revocare le bolle pontificie Romanus Pontifex (1455) e Inter Catera (1493), e tutte le altre leggi che sanzionarono la conquista e la distruzione dei popoli indigeni non-cristiani nel Nuovo Mondo (…) Di revocare la politica del Vaticano che richiede che vescovi e preti tengano segrete le prove degli abusi subiti da bambini indigeni nelle loro chiese invitando le vittime al silenzio…».

 
IL MENU' DELLE TORTURE
Decine e decine di sopravvissuti provenienti da dieci diverse scuole residenziali della British Columbia e dell’Ontario hanno descritto sotto giuramento le seguenti torture, inflitte fra il 1922 e il 1984, a loro stessi e ad altri bambini, alcuni di soli cinque anni di età:
- Stringere fili e lenze da pesca attorno al pene dei bambini; - Inserire aghi nelle loro mani, guance, lingue, orecchie e pene;
- Tenerli sospesi sopra tombe aperte minacciando di seppellirli vivi;
- Costringerli a mangiare cibo pieno di vermi o rigurgitato;
- Dire loro che i genitori erano morti o che stavano per essere uccisi;
- Denudarli di fronte alla scolaresca riunita e umiliarli verbalmente e sessualmente;
- Costringerli a stare eretti per oltre 12 ore di seguito sino a quando non crollavano;
- Immergerli nell’acqua ghiacciata;
- Costringerli a dormire all’aperto durante l’inverno;
- Strappare loro i capelli dalla testa;
- Sbattere ripetutamente le loro teste contro superfici in muratura o in legno;
- Colpirli quotidianamente senza preavviso tramite fruste, bastoni, finimenti da cavallo, cinghie metalliche, stecche da biliardo e tubi di ferro;
- Estrarre loro i denti senza analgesici;
- Rinchiuderli per giorni in stanzini non ventilati senza acqua né cibo;
- Somministrare loro regolarmente scosse elettriche alla testa, ai genitali e agli arti.

LE TESTIMONIANZE

«Quando avevo sei anni, proprio davanti ai miei occhi vidi una suora ammazzare una bambina. Era suor Pierre, ma il suo vero nome era Ethel Lynn. La bambina che uccise si chiamava Elaine Dik e aveva cinque anni. La suora la colpì con violenza dietro il collo e io udii quell’orribile schiocco. Morì proprio dinanzi a noi. Poi la suora ci disse di scavalcarne il corpo e andare in classe. Era il 1966».
(Steven H., St Paul’s Catholic day School, North Vancouver)


«Nè io né nessuno dei miei fratelli potè avere figli dopo che fummo sottoposti ai raggi x nella scuola residenziale Carcross Angelican School, nello Yukon. Presero ognuno di noi e ci misero sotto la macchina a raggi x per 10-20 minuti. Proprio sulla zona pelvica. Avevo 10 anni. Io e i miei fratelli non avemmo mai figli». (Steve John, Denè Nation, 7 giugno 2005)

«Il primo a subire l’operazione fu il maggiore dei miei figli, quando aveva quattro anni. Era il 1975. Lo portarono via mentre io non ero in casa. Nel luglio del 1981 sterilizzarono il mio figlio più giovane, aveva nove anni. Lo portarono al Victoria General Hospital e lo tennero là per giorni. Nessuno dei due ragazzi può avere figli. Ci fecero questo perchè siamo discendenti dei capi originali, eredi di questi territori. Il governo sta ancora cercando di farci fuori». (Nomi non mostrati su richiesta) Vancouver Island, 18 maggio 2005

«Il dott. James Goodbrand sterilizzò molte delle nostre donne. Ho sentito personalmente Goodbrand dire che il governo lo pagava 300 dollari per ogni donna che sterilizzava».
(Sarah Modeste, Cowichan Nation, Vancouver Island, 12 agosto 2000)


«Mia sorella Maggie fu scaraventata da una suora dalla finestra del terzo piano della scuola di Kuper Island, e morì. Tutto venne insabbiato, né venne svolta alcuna indagine. All’epoca, essendo indiani, non potevamo assumere un avvocato e così non venne mai fatto alcunché».
(Bill Steward, Duncan, BC, 13 agosto 1998)


«Mio fratello morì a causa di una scossa elettrica data da un ago da bestiame. Aveva quattro anni, i pastori lo trascinarono e lo ferirono, gli tagliarono la pelle sotto la fronte con una frusta. Come la frusta dei cavalli. Era tagliente e aveva sopra delle lame. Io ero lì, lo sentivo gridare aiuto. Subito dopo c’era un mare di sangue sul pavimento, ma non lo portarono all’ospedale, in infermeria o altrove, e quello accadde allora, quando ero lì. Lo sento ancora che grida aiuto: “Rick, aiuto, mi stanno torturando! Sto morendo!”. E poi morì. Era il mio unico.. Il mio unico… Il mio miglior amico e il mio unico fratello che ho sempre amato».
(Rick La Vallee, Portage La Praire Residential School - Catholic Curch).


«Avevo soltanto otto anni, e ci avevano mandato dalla scuola residenziale anglicana di Alert Bay al Nanaimo Indian Hospital, quello gestito dalla Chiesa Unitaria. Lì mi hanno tenuto in isolamento in una piccola stanza per più di tre anni, come se fossi un topo da laboratorio, somministrandomi pillole e facendomi iniezioni che mi facevano star male. Due miei cugini fecero un gran chiasso, urlando e ribellandosi ogni volta. Così le infermiere fecero loro delle iniezioni, ed entrambi morirono subito. Lo fecero per farli stare zitti».
(Jasper Jospeh, Port Hardy, British Columbia 10 novembre 2000)


«Una sorta di accordo sulla parola fu in vigore per molti anni: le chiese ci fornivano i bambini dalle scuole residenziali e noi incaricavamo l’RCMP di consegnarli a chiunque avesse bisogno di un’infornata di soggetti da esperimento: in genere medici, a volte elementi del Dipartimento della Difesa. I cattolici lo fecero ad alto livello nel Quebec, quando trasferirono in larga scala ragazzi dagli orfanotrofi ai manicomi. Lo scopo era il medesimo: sperimentazione. A quei tempi i settori militari e dell’Intelligence davano molte sovvenzioni: tutto quello che si doveva fare era fornire i soggetti. I funzionari ecclesiastici erano più che contenti di soddisfare quelle richieste. Non erano solo i presidi delle scuole residenziali a prendere tangenti da questo traffico: tutti ne approfittavano, e questo è il motivo per cui la cosa è andata avanti così a lungo; essa coinvolge proprio un sacco di alti papaveri». (Dai fascicoli riservati del tribunale dell’IHRAAM, contenenti le dichiarazioni di fonti confidenziali, 12-14 giugno 1998)

* Testo tratto da miei articoli e reportage pubblicati su “il manifesto” del 6 aprile e del 21 settembre 2010)