RiEvoluzione Poetica

venerdì 21 dicembre 2012

tratto da: DEMOCRAZIA KM ZERO
  


di  * * *

Una lettera collettiva di alcuni redattori del manifesto, giornale la cui lunga crisi è arrivata a un dunque: il 17 dicembre scorso due offerte per l’acquisto della testata sono arrivate ai commissari liquidatori: la prima, dello stampatore (e immobiliarista) romano Farina; la seconda, di un gruppo di finanziatori il cui rappresentante è Bevilacqua, ex membro del consiglio di amministrazioen della cooperativa il manifesto. In questo sito (http://www.democraziakmzero.org/2012/12/17/il-manifesto-una-cronaca/) altre notizie sulla vicenda e la lettera collettiva dell’attuale redazione del giornale.
 
Il manifesto è stata un’avventura straordinaria. L’invenzione di una nuova forma della politica, quando ancora nessuno immaginava che politica e comunicazione sarebbero diventate la stessa cosa. L’esercizio quotidiano di un pensiero critico, in un sistema dell’informazione che di pensiero critico non abbonda. La tessitura incessante di una rete di relazioni ricchissima, con i lettori, i collaboratori, i sostenitori. La costruzione di uno spazio in cui un giovane sconosciuto, un operaio di Marghera, un collettivo femminista erano autorizzati a parlare quanto un intellettuale blasonato. La pratica quotidiana del confronto, talvolta ruvido ma sempre interessato alle differenze in gioco, fra la generazione dei fondatori espulsi dal Pci, quella del ’68, del ’77 e del femminismo, quella della Pantera e di Genova. Il luogo di frontiera libero da dove abbiamo avuto il privilegio di attraversare, raccontare, interpretare quarant’anni densissimi di storia politica e culturale del mondo e della sinistra.
Tutto questo, e molto più di tutto questo, sotto la testatina «quotidiano comunista». Che non è mai stata, per nessuno di noi – a cominciare da Rossanda e Parlato, da sempre schierati per un giornale di ricerca e di innovazione, non di partito ma di parte -  un’etichetta identitaria, né un programma ideologico, né tantomeno una tessera. E’ stata e resta, fondamentalmente, il segno di due cose. La prima: che l’orizzonte del comunismo deve restare aperto, non come speranza per il futuro ma come contraddizione del presente, contro la volontà di potenza del capitalismo, contro la violenza sui corpi e sulle vite dei poteri vecchi e nuovi, contro i manipolatori delle menti e i colonizzatori dell’immaginario. La seconda: che fra quella testatina del giornale e la vita del gruppo che lo produce debba esserci una qualche coerenza. Non riconducibile solo alla formula proprietaria, pure importantissima, e all’egualitarismo salariale. Bensì ad uno stile delle relazioni fra noi, consapevole che quel «noi» è un soggetto prezioso e delicato, da trattare con la stessa cura dell’oggetto-giornale da mandare in edicola ogni giorno. Non dunque, come recita uno slogan oggi caro alla Direzione, un manifesto «oltre le nostre persone», ma le nostre persone nella scommessa del manifesto.
Lettrici e lettori, collaboratrici e collaboratori ci chiedono perché abbiamo mollato. Ce lo chiedono con dispiacere, talvolta sorpresi perché non capiscono, talvolta irritati come se avessimo tradito un’aspettativa o una certezza, una missione o un dovere di  resistenza. Hanno qualche ragione, perché avremmo dovuto dire più, e qualche torto, perché anche i silenzi parlano, ad esempio di un tentativo di non inasprire i toni, o del bisogno di elaborare una perdita. La risposta, comunque, è semplice: perché poco o nulla di quello che per noi è stato ed è il manifesto sopravviveva ormai in via Bargoni. Il che non significa pensare che il manifesto sia finito per sempre. Significa separarsi da un manifesto che in questo momento non è più quello che, fino all’ultimo, ci siamo spesi per tenere in vita e costruire.
Quando ci si separa, si sa che spesso volano gli stracci, e con gli stracci molte bugie. Non staremo a  contestarle o smentirle una per una. Su qualcuna però non possiamo tacere.
Non è vero che siano emerse fra noi posizioni politiche e di politica editoriale incompatibili. Né che ci sia stato uno scontro tra fautori di un “giornale-partito” contro un “giornale-giornale”. E’ vero piuttosto che negli ultimi anni è stato programmaticamente eliminato il terreno stesso del confronto politico, culturale  ed editoriale al nostro interno. Qualsiasi discussione è stata ritenuta superflua e perfino ostativa alla fattura di un giornale sempre più omologato, al di là dei singoli contributi pure spesso eccellenti, alla stampa mainstream, alla sua agenda, alle sue tematizzazioni; sempre meno sperimentale nella formula editoriale (rapporto carta-online, rapporto quotidiano-supplementi etc.); sempre più ridotto da intelligenza collettiva a macchina produttiva veicolo di interventi esterni. Questa ostinata chiusura della discussione ci ha oltretutto impedito di confrontarci con il dato duro di un forte calo delle vendite, sempre attribuito genericamente alla crisi della carta stampata e mai analizzato come sintomo specifico di una perdita di autorevolezza e di efficacia della testata.
Non è vero che la liquidazione coatta sia stata imposta dal Cda uscente, segnatamente nelle persone del suo presidente Valentino Parlato e dell’amministratore delegato Emanuele Bevilacqua. La liquidazione era l’unica opzione possibile per evitare la procedura fallimentare, tutelando i diritti e gli ammortizzatori sociali dei soci-lavoratori; lo sapevamo tutti, e l’abbiamo approvata tutti, salvo un paio di eccezioni. Essa non ci avrebbe impedito di tentare fin da subito – ormai un anno fa – di mettere a punto un piano di riacquisto della testata, con l’aiuto dei lettori e dei circoli, e di ridefinizione della cooperativa e della redazione secondo criteri organici a un piano di riforma del prodotto: per aggiornarne e rilanciarne il senso politico-editoriale, che si era appannato negli ultimi anni, e per risanare una gestione economica sbagliata, di cui tutti portiamo qualche responsabilità. Purtroppo è stata seguita un’altra strada. Nessun piano di riacquisto, mentre la cooperativa e la redazione venivano lasciati a un’emorragia spontanea  di competenze professionali e di funzioni, senza nulla fare per tamponarla, e anzi giocando su sottoutilizzazioni e prepensionamenti – questi ultimi nient’affatto «scelti», come ora si dice, bensì accettati per ridurre i costi del lavoro, e per giunta additati come posizioni di privilegio e fatti oggetto di una brutta campagna «rottamatoria»  da parte dei redattori più giovani – per sfrondare il giornale da posizioni non allineate.
Non è vero dunque che la nuova cooperativa nasca dalla differenza algebrica fra l’innocenza e la buona volontà di quanti «hanno tenuta aperta la casa» e «il menefreghismo di chi ha lasciato il giornale in un momento difficile». Essa è piuttosto il frutto dell’avocazione a sé, da parte della Direzione e delle rappresentanze sindacali, di funzioni di rappresentanza della proprietà collettiva del giornale che non sono di loro pertinenza. Fino al rifiuto di eleggere un organismo garante della trasparenza del delicato processo di transizione ed eventualmente di vendita della testata.
Altro che menefreghismo, esili volontari e porte sbattute. Su questi e su altri punti, di metodo e di sostanza, abbiamo continuato fino alla fine a proporre strade alternative e a dare battaglia, senza mai far mancare il nostro contributo gratuito di scrittura malgrado i dissensi, peraltro pubblicamente espressi sulle pagine del giornale ma mai raccolti, sempre respinti e più volte denigrati.
Sono queste le ragioni che ci hanno persuasi, non senza dolore, a non partecipare alla formazione della nuova cooperativa, di cui non ci è chiara né la prospettiva politico-editoriale né la discontinuità amministrativo-gestionale. E che nasce da una consapevole messa in mora, per non dire da un sostanziale disprezzo, di quello stile delle nostre relazioni che dicevamo all’inizio. Se ne può trarre la conclusione che noi ci siamo allontanati dal manifesto: ma solo dopo che il manifesto, «questo» manifesto, si era allontanato da noi. Quanto al domani, è tutto da scrivere.

Loris Campetti, Marco Cinque, Mariuccia Ciotta, Astrit Dakli, Ida Dominijanni, Sara Farolfi, Tiziana Ferri, Marina Forti, Maurizio Matteuzzi, Angela Pascucci, Francesco Piccioni, Gabriele Polo, Doriana Ricci, Miriam Ricci, Roberto Silvestri, Roberto Tesi (Galapagos)

mercoledì 14 novembre 2012

reading "dalla parte del torto"

Reading "dalla parte del torto"
 

Letture di testi poetici con interazioni musicali realizzate con strumenti etnici: un viaggio di parole e suoni per entrare nel mondo degli esclusi, degli invisibili, degli "ultimi" di ogni estrazione e latitudine. Appuntamento per venerdì 7 dicembre, alle ore 21,00, presso la Sala consiliare di Moniga del Garda (BS), in Piazza San Martino.

La serata sarà dedicata al nativo americano di ascendenza yaqui, Fernando Eros Caro, prigioniero da quasi 30 anni nel braccio della morte di San Quentin, in California. Tutti i ricavi delle vendite dei volumi proposti verranno devoluti interamente alla sua causa.

Il progetto multimediale "dalla parte del torto" si colloca in un percorso itinerante, attivo sin dal 1995 su tutto il territorio nazionale, in teatri, piazze, centri sociali, luoghi di aggregazione e soprattutto negli istituti scolastici di ogni ordine e grado.

venerdì 12 ottobre 2012

la poesia di Claribel Alegrìa

Claribel Alegrìa - foto di Marco Cinque

IL MANIFESTO del 29 Settembre 2012

intervista


L'Alegría di Claribel



A colloquio con la scrittrice e poetessa che Eduardo Galeano ha definito «uguale al suo nome», una delle voci contemporanee più importanti dell'America Latina. Che spiega quale dovrebbe essere il ruolo sociale di chi scrive e perché il potere ha paura della poesia come di tutte le espressioni libere. «Nasciamo tutti poeti. La cosa brutta è che a metà strada ci smarriamo e dimentichiamo il nostro stupore»

di Marco Cinque

«Di patria nicaraguense e matria salvadoregna», come ama definirsi Claribel Alegría, nata a Estelì, piccola città del Nicaragua nel 1924, è una scrittrice e poetessa tradotta in 15 lingue, considerata la contemporanea più importante dell'America Latina. A Santa Ana nel Salvador Claribel trascorre l'infanzia e l'adolescenza, dove vive per la prima volta la spietatezza di una dittatura. L'impressione è così forte che lei scomporrà e ricomporrà questo periodo di vita nei romanzi, nei racconti e in tantissime delle sue poesie. Si laurea in Lettere e filosofia alla George Washington University, città in cui incontra Darwin J. Flakoll, che sposa nel 1947. La coppia avrà quattro figli e vivrà in una comunione di amore, ideali, viaggi, creatività. Nel 1948, grazie all'aiuto del Nobel per la letteratura Juan Ramón Jiménez, viene pubblicata la sua prima raccolta di poesie, Anillo de Silencio. Nel 1978 riceve a Cuba il Casa de las Américas, il più prestigioso premio letterario centroamericano.
Negli anni '70 Claribel aderisce al Fronte Sandinista di Liberazione (d'ispirazione marxista) e partecipa attivamente alle proteste nonviolente contro la dittatura di Anastasio Somoza Debayle. Dopo aver vissuto in vari paesi europei e latinoamericani, nel 1979 Claribel e Darwin scelgono di trasferirsi in Nicaragua e scrivono, tra le altre cose, libri-testimonianza sulla realtà centroamericana. Uno di questi, Ceneri di Izalco, che racconta di una toccante storia d'amore nel contesto della repressione e dei massacri del 1932, perpetrati contro i contadini indios del Salvador, è stato tradotto per la prima volta in italiano l'anno scorso per Incontri editrice di Sassuolo. Così è stata finalmente anche compiuta la volontà di Italo Calvino, che per primo aveva tentato di tradurre l'autrice nella nostra lingua.
Claribel Alegría oggi vive a Managua e ha al suo attivo una produzione ricchissima, che comprende romanzi, saggi, libri per bambini e raccolte poetiche. È uscita in questi giorni, sempre per Incontri, la raccolta di poesie Alterità, con una toccante introduzione di Gioconda Belli, pubblicata in occasione della partecipazione di Claribel al Poesia Festival di Terre dei Castelli (Modena), che ha dato anche il via al tour italiano della scrittrice.
I versi di Claribel Alegría sono semplici, eleganti e luminosi. Parlano della vita, dei soprusi subiti dai più deboli, delle ferite che lascia in noi la morte dei «nostri morti», dell'ordine naturale delle cose e del disordine creato dalle ingiustizie che l'uomo commette sull'uomo e sulla natura. Lei si immedesima nei personaggi mitologici e biblici, sovvertendo talvolta i loro destini nel tentativo di rendere «più giusto» il corso della storia e il mondo che la circonda. Cerca le sue radici nella mitologia indigena dei maya e degli aztechi e riscatta le figure leggendarie oltraggiate dai conquistatori e dalla loro cultura imposta. Claribel fonde tutto questo in una singolare e limpida voce che denuncia e interroga, dialoga col mistero, combatte e, anche quando perde, non si arrende perché in lei prevalgono l'amore e la luce. Come dice di lei lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, «Claribel è uguale al suo nome», chiara e bella, e così anche la sua poesia.

In un mondo dove le parole sono spesso strumenti d'inganno, gli scrittori e i poeti non dovrebbero assumersi la responsabilità di chiedersi: «Quante volte riusciamo ad essere ciò che scriviamo?».

Sì, credo che gli scrittori e i poeti abbiano davvero la responsabilità di porsi questa domanda. E il mio pensiero va subito a poeti come Roque Dalton, Otto René Castillo e Leonel Rugama, che hanno vissuto secondo ciò che predicavano, consegnando la propria vita. Per quello sono stati assassinati.

In molti paesi del mondo ci sono poeti che ancora oggi vengono censurati, minacciati, arrestati, esiliati e talvolta persino uccisi, come ad esempio il saudita Hamza Kashgari che rischia il patibolo per una sua composizione o il cinese Zhu Yufu, condannato a sette anni di prigione per alcuni versi o la giovane scrittrice colombiana Angye Gaona che rischia 20 anni di carcere. Perché la poesia, se è libera, mette così paura al Potere?

Il Potere teme tutto ciò che è espressione libera, non solo i poeti.

Nel linguaggio poetico l'amore è l'argomento più abusato e spesso banalizzato. Com'è possibile trasformarlo da un fatto personale e autocelebrativo in qualcosa di collettivo e universale, in una rivendicazione, un atto di resistenza per difendere la propria umanità dalla disumanità che incombe?

Si abusa a volte dei temi dell'amore e della morte e certamente si banalizzano. L'autore, scrittore o poeta, deve tenere conto del fatto che ciò che egli vuole esprimere non appartiene solo a lui e che nel comunicarlo deve cercare di renderlo universale. Certo, deve tentare di difendere i suoi scritti dalla disumanizzazione, per questo motivo è necessario che ogni giorno si sforzi di scrivere meglio, di essere più onesto con se stesso nell'aiutare il lettore a scoprirsi.

Tranne alcuni casi, in Italia i poeti contemporanei più conosciuti e celebrati utilizzano per lo più un linguaggio di nicchia ricercato e complesso, che li relega nei percorsi autoreferenziali dei circuiti accademici e dei salotti letterari, distanti dalla capacità di comprensione della gente comune. Che ne pensi e cosa consiglieresti loro?

Parlerò di me, del caso mio, perché non ho il diritto di parlare per gli altri. Attraverso la mia poesia voglio comunicare e cerco di essere trasparente, di eliminare le foglie morte. Ho scelto il verso libero, mentre altri poeti si sentono più comodi scrivendo in modo barocco, e perché no? Bisogna essere liberi, cercarsi e ricercarsi; provare a trovare la propria misura. Sono i lettori poi a scegliere.

Parlando di pregiudizio, di settarismo e di muri che dividono, la poesia normalmente viene relegata in compartimenti stagni di appartenenza, separata dagli altri linguaggi dell'arte e della comunicazione. Che ne pensi di una possibile riunificazione, di un'interazione tra i diversi percorsi espressivi?

Tanto più si tenta di relegare la poesia, quanto più essa brilla da tutte le parti e si introduce nelle diverse forme di espressione, non solo nella letteratura, ma in tutte le altre arti e nella scienza. Ecco, la poesia invade la scienza.

Come possiamo andare al senso più autentico della poesia, alla sua funzione sociale, al suo ruolo, alla sua utilità, se spesso invece siamo prigionieri di formalismi letterari, di gabbie stilistiche, di parametri grammaticali e persino di sperimentazioni eccessive che gli stereotipi e le convenzioni che monopolizzano questo linguaggio ci pongono e ci impongono?

Penso che i poeti non debbano cercare di essere utili alla società come qualsiasi altro individuo. Non è che io pensi che una poesia o una raccolta di poesie possa cambiare il mondo, però può certamente aiutare ad aprire gli occhi, a cercare. Per me lo hanno fatto Vallejo, Pessoa, Ungaretti e tanti altri.

Se, come credo, è vero che tutte le persone nascono con la poesia, ma la maggior parte semplicemente lo dimentica, quel che conta non dovrebbe allora essere soltanto la poesia stessa, finalmente senza fregiarci del titolo di poeti?

Anch'io lo credo, sono d'accordo con te che nasciamo tutti poeti. Quale bambino non è poeta? La cosa brutta è che a metà strada ci smarriamo e dimentichiamo il nostro stupore. Diventiamo più complicati, impermeabili, insensibili.

(traduzione a cura di Zingonia Zingone)

martedì 11 settembre 2012


FORTEZZA EUROPA

La senti la puzza di morte
nel legno fradicio che geme
mentre nascondi il tuo bambino
dai fendenti roventi del sole?

E la voce della speranza, la senti
tacere sotto l'incedere dell'onda
con gli occhi di mille arrivederci
spalancati come fiori di terrore?

Il mare ormai muro di fortezza
è fonte inesauribile di dolore
e cancella la tua storia mai nata
nel cimitero liquido dei senzanome

Chi mai piangerà il tuo natale?
a chi toccherà scrivere l'epitaffio
di questa strage dove nessuno si salva
ma tutti restano incolpevoli?

È fatto di vergogna il mare che
bisogna sopportare, che spinge
a scrivere e dolersi a leggere e soffrire
consapevoli di quanto ciò non basti

L'innocenza è affogata per sempre
nel naufragio di un'umanità dimenticata
infranta sugli scogli di Ahmetbeyli
o ingoiata dai flutti di Lampedusa

È una discarica per anime povere
fatta di rifiuti rifiutati che ancora osano
sognare, che bussano alle nostre porte
chiuse e noi, guardando nello spioncino

li lasciamo lì a bussare, e bussare
per proteggere le tasche dal cuore
fingendo di non vedere, di non sentire
dimenticando che chiudersi dentro

è come chiudersi fuori
dalla nostra stessa vita.

lunedì 10 settembre 2012

RIFIUTO

(sul degrado globale dell'essere)

Io sono un rifiuto / rifiutato dal giorno che son nato / sono il letame che compro e che produco / il futuro abortito d'un frustrato / malato d'un ego smisurato e in verità / sono quello che pretende libertà / la libertà di pisciare controvento / e di puzzare di piscio ben contento. / Io sono il desiderio prigioniero di uno sballo / sono l'alito di tomba di sciacallo / che quando danzo sul corpo stuprato della terra / danzo da solo in questa collettiva guerra. / Io sono la musica che scassa / sono la gioia maledetta / quello che spaccia merda benedetta / sono la ragione orfana del torto / quello vivo che cammina nelle scarpe rubate a suo fratello morto. / Io sono la moltitudine incazzata / un uovo marcio a girare la frittata / sono la folla in overdose di casino / quello che il peggior veleno lo mischia al miglior vino / quello dal vaffanculo pronto ma innocente / quello che urla tanto poi non sente / quello dal verbo incapace d'ascoltare / io sono il mare in questa rabbia primitiva / sono l'onda precaria che parte e non arriva. / Io sono qui, seduto sul culo dell'abisso / in questo futuro inchiodato e crocifisso / nelle mie vene scorrono incubi & progresso / io sono il cesso, privo di vergogna e pena / quello che sparirà al premer d'un pulsante o al tirar d'una catena / io sono il nulla che si crede il tutto / quello che ascolta l'eco del suo planetario rutto.

versione audio:
http://www.youtube.com/watch?v=WzTSPlP9a-k

martedì 12 giugno 2012


PAROLA NUDA è parola che si fa poesia. Una parola che non evoca, che non teme di esporsi, che non teme di mostrare al lettore la sua più intima natura, ma che si mette deliberatamente a nudo, poiché non ha nulla da temere e tutto da rivelarci.
Le poesie di Marco Cinque hanno la stessa devastante potenza di un’“Origine del mondo” di Courbet e la stessa sinuosa bellezza di un nudo di Modigliani: si presentano a noi come il suo autore (mai artefice!) le ha generate, in tutta la loro candida essenza, ma esse recano pur sempre brandelli del loro autentico travaglio, il “sangue” del loro stesso parto. È così che si incarnano nel testo: pure, dure, vibranti. La loro presenza si fa vagito che echeggia tra le pagine. Esse esprimono a chiare lettere il candore dello sguardo del poeta alla caparbia ricerca del verbo, alla ricerca di un corpo sonoro che le faccia vocalizzare. Poiché in fondo, queste parole non si nascondono, ma devono essere profferite, devono rivelarsi al lettore dispiegando altrettanto nude verità, presentandoci una realtà ineluttabile e vera che non può essere rifuggita. Una realtà che ci offre l’instancabile impegno dell’autore a comunicare il suo sentito messaggio, le sue inesorabili e condivisibili verità.
Vi è in fondo, nella poesia di Marco Cinque, proprio tutta l’urgenza di svelare il suo più profondo pensiero, l’urgenza di nascere nella nostra mente, di scorrere nelle nostre vene, di farci palpitare l’animo, di innestarsi nel nostro cuore per deflagrarvi con tutta forza il suo messaggio.
La sua è una parola essenziale, ma tagliente. È una parola pura, ma che lascia un segno. È una parola lieve, ma che erompe con la forza del suo impegno, senza orpelli o accessori, rivestita solo di se stessa. È così che ci incanta, è così che emana tutta la prorompente forza del suo messaggio e la nuda bellezza che la permea.

Alessandra Bava

venerdì 27 aprile 2012


APPELLO ALLE ISTITUZIONI ITALIANE

L'informazione libera e pluralista, assieme alla stampa non profit, fa parte integrante del sistema immunitario di ogni democrazia. Se si modifica, si impoverisce o addirittura si esclude questo sistema, si decreta consapevolmente, lucidamente, cinicamente un'inevitabile patologia per il nostro intero corpo sociale; una patologia che causerà la malattia, la sofferenza e la morte della democrazia stessa.
Questo appello è rivolto al governo in carica, al parlamento e a tutte le cariche istituzionali italiane: voi avete la responsabilità di salvare l'economia del Paese, ma ancor prima avete il dovere di salvarne i principi democratici e i diritti costituzionali, di gran lunga più importanti dei mercati e delle borse.
L'informazione indipendente è l'unica che può garantire un giornalismo libero da qualsiasi convenienza o profitto finanziario. La grande industria della notizia, in primo luogo, si basa invece sulle logiche commerciali, sugli utili e sui profitti. Questo ne condiziona o addirittura ne assoggetta i principi stessi di libertà d'informazione.
Se non fate subito qualcosa per garantire l'esistenza delle più di 100 testate che stanno per chiudere, al di là delle nuove migliaia di disoccupati e delle famiglie sul lastrico che il Paese dovrà sopportare, sarete ricordati come coloro che hanno sancito la fine della democrazia italiana e l'avvio di un vero e proprio regime, che sia politico o finanziario non farà alcuna differenza per i cittadini che dovranno subirlo.
Rimandare ancora o far finta di non vedere, significa che è già stato deciso il suicidio democratico di questa Repubblica.


mercoledì 18 aprile 2012

POETI DA MORIRE

Nell'ambito del Laboratorio dei diritti umani, organizzato dalla Biblioteca Franco Basaglia di Roma e da Amnesty International ogni ultimo martedì del mese (dal 31 gennaio al 26 giugno 2012), si terrà il reading Poeti da morire, con letture di testimonianze e poesie dai bracci della morte statunitensi accompagnate da musiche  dal vivo realizzate con strumenti etnici provenienti da ogni parte del mondo. L'incontro, a cura di Giuseppe Lodoli (Comitato Paul Rougeau) e Marco Cinque (scrittore, musicista e attivista dei diritti umani), prevederà una introduzione dello stesso Lodoli, cui seguiranno letture drammatizzate e musicate con Marco Cinque (voce narrante e fiati etnici), Paolo Codato (voce narrante), Olga Campofreda (voce narrante), Fabio Appetito (voce narrante),  Alessandra Bava (voce narrante), Pino Pecorelli (percussioni etniche) e Stefano Cinque (piano-tastiera). Aderisce alla serata il gruppo romano delle Revolutionary Poets Brigade (fondato tra gli altri da Jack Hirschman, grande poeta ed emblema della controcultura statunitense), che utilizza il linguaggio poetico per veicolare contenuti sociali come appunto quelli dei diritti civili, umani e ambientali, realizzando iniziative non all'interno dei circuiti accademici o nei salotti letterari, spesso autoreferenziali, ma nel vivo del tessuto sociale.