RiEvoluzione Poetica

lunedì 2 agosto 2021

ARPA A BOCCA

di Marco Cinque

Questo lavoro di Gabriel Impaglione somiglia a una sorta di viaggio poetico circolare, dentro e fuori di sé, preceduto da una dichiarazione d’amore, quella di Giovanna Mulas, poesia nella poesia che spariglia le scontate e adulanti prefazioni che troppo spesso siamo costretti a sorbirci o a saltare a pié pari.

La raccolta Arpa a bocca, edita da Book Publishing, è un susseguirsi di finestre aperte sul mondo, su mondi altri, sul tempo, sulla parola, sulla verità, sulla menzogna, sulla storia, sulle menzogne della storia, sul senso, sui sensi, sulle mille voci del silenzio e si fa sintesi tra filosofia e animismo, metafora di un respiro resistente che mette in gioco i propri polmoni per difendere il colibrì dalle fiamme con cui la specie umana sta dilaniando se stessa e il suo mondo.

Coinvolge il modo in cui l’autore sa coniugare la passione rivoluzionaria all’amore, senza nascondere i propri limiti, le proprie cicatrici, tornando alle sue radici siciliane per farsi attraversare da un sentimento di appartenenza che non è la stucchevole retorica di patria & bandiera, ma un luogo indefinito e indefinibile, senza inizio o fine, come una risacca che torna alla propria onda.

Le poesie di Arpa a bocca non sono solo segni imprigionati tra i margini di un foglio ma, come lo stesso marranzano -lo strumento musicale che evocano-, si fanno al contempo sia suono che ritmo, pentagramma dove le parole diventano gesti e viceversa. Nessuna distanza sia permessa tra poesia e vita.

Nascere, vivere, partire, tornare, unire le sponde dei propri mondi in una consapevolezza dove essere ogni cosa e dove ogni cosa sia te, per tradurre il mistero senza svelarlo, smascherare il sicario senza tagliargli la gola, dare un senso alla scrittura necessaria come il pane e lasciare, parafrasando Ferré, che “i versi cantino nella testa dei popoli”, al ritmico suono di un’Arpa a bocca, una nota unica capace di contenere tutte le note.
Grazie Gabriel.

https://www.agbookpublishing.com/product/gabriel-impaglione-arpa-a-bocca/



mercoledì 24 marzo 2021

LA POESIA: nasce dal dolore e si protende alla luce



di Marco Cinque


Credo che non siano tanto le parole a definire la poesia, ma è piuttosto la poesia a definire le parole che la rappresentano. Per quanto si studi, per quanta fine grammatica si utilizzi, per quante migliaia di idiomi si possano sapere e per quanti celebrati autori e autrici si collezionino per ostentare la propria conoscenza, questo non sarà mai sufficiente per accendere quel fuoco misterioso e insondabile che esiste da ancor prima dell’avvento della parola scritta, della grammatica, dei libri. Le descrizioni, le definizioni, le etichette che si danno alla poesia sono infinite, tuttavia risultano immancabilmente inadeguate, parziali, fuorvianti, strumentali, stucchevoli, persino inutili.


Spesso coloro che si definiscono e vengono definiti esperti o critici, sono dei frustrati presuntuosi che non vogliono farsi una ragione della propria frustrazione e allora si arrogano il diritto di imporre la loro visione soggettiva per dare patenti di poeticità a proprio uso e consumo. Così, ogni giorno, si leva una voce che pretende di spiegare ciò che non può essere spiegato. Così, ogni volta, qualcuno viviseziona un corpo poetico per cercare di capire dove può trovare il suo cuore, i suoi polmoni, i suoi muscoli, la sua pelle ma, quando rimette assieme i pezzi per dar loro una parvenza di vita, ciò che resta è solo un cadavere smembrato e in putrefazione. Così, ad ogni occasione, cercando di spiegare i perché e i per come della poesia, la si uccide.


 La rincorsa maniacale ad aggiungere parole rare o inusuali, verbi rivoluzionari, neologismi sorprendenti, metriche innovative, sintassi spaziali e quant’altro, non contribuisce a far trovare il bandolo della poesia. Piuttosto che aggiungere bisognerebbe invece togliere, depurare, liberare la poesia da tutto l’armamentario che impedisce di intravedere il suo corpo nudo e tremante, che non permette di riconoscere in essa uno stato dell’essere che appartiene a tutti, non solo a una casta.

 
Per quanto se ne possa disquisire, la poesia non può essere partorita da una stereotipata felicità e/o da una bellezza idealizzata della vita. Che si sappia, ogni parto prevede una gestazione, un peso, una fatica, un corpo che si deforma, un dolore profondo, lancinante e ciò che ne scaturisce non è un canto di gioia, ma un vagito di smarrimento, un pianto dirotto, un ancestrale urlo in faccia alla vita. Penso perciò che la poesia nasca proprio dal dolore e dalla sua elaborazione. Non mi sento pertanto di augurare a cuor leggero quest’idea di poesia, così come non augurerei a nessuno la sofferenza, a meno che la sofferenza non sia intesa come percorso di consapevolezza e guarigione, ricordando però che si può guarire dalla menzogna, dalla finzione, dalle illusioni, non certo dal dolore e dalle cicatrici.


Ma che senso ha la poesia per una persona senza problemi, felice e spensierata, se non quello di permetterle di cimentarsi in un mero esercizio formale, in un estetico assemblaggio senza alcuna profondità? Non a caso è proprio nei luoghi più oscuri, pieni di sofferenza e disperazione, che ho visto nascere quella luce che chiamiamo poesia ma, non essendo innocua o gradevole per chi la legge, spesso è condannata a restare nel buio. Ho comunque potuto toccare con mano e sperimentare in prima persona quanto i contesti disumani e impoetici possano invece generare l’umanità della poesia, quella più autentica, quella senza padrini & padroni o un qualunque  prezzo da corrispondere.


Di converso, è curioso osservare quanto a un crescente impoverimento  della sensibilità umana, oggi minata da derive globali di personalismi, individualismi, egocentrismi e antagonismi, corrisponda invece una presunta fame di poesia, con centinaia di migliaia di poeti che, per numero, potrebbero dar vita persino a un nutrito partito poetico mondiale. Infatti, pur non avendo un mercato - in troppi scrivono e in troppo pochi leggono -, fioccano richieste di arruolamento al nobile linguaggio, per aggiungere il proprio nome agli sterminati elenchi dei poeti che, comunque, resteranno sconosciuti; ma vista l’abbondanza della richiesta, ormai fioccano anche editori trasformati in venditori di pentole, che cavalcano questa ingenua necessità promuovendo illusioni in forma di libri, invariabilmente invenduti e da pagare a caro prezzo dai loro stessi autori.

 
Disgraziatamente, l’immarcescibile narcisismo del poeta e l’influenza di una cultura appiattita sull’esibizionismo, non fanno che accrescere il numero dei poeti e impoverire la poesia. Quanti però sono pronti a pagare davvero, sulla loro stessa pelle, una poesia che non risulti docile, ammaestrabile, innocua? Se l’utilizzo di questo linguaggio ti fa rischiare la persecuzione, l’esilio, la galera, la tortura e persino la morte, in quanti sarebbero disposti a utilizzarlo? E perché oggi molte voci poetiche vittime di censura e di brutale repressione, come ad esempio quelle di
Ashraf Fayadh, Ericson Acosta, Zhu Yufu, Mohamed al-Ajami, Liu Xia, Sepideh Jodeyri, Fu Ying, Habib Shalib, Zanele Muholi, Chitra Ganesh, Rana Hamadeh, Irina Ratushinskaya e altre e altri, per il mondo accademico, ma anche per la maggior parte dei cosiddetti poeti, sono solo nomi tanto difficili da pronunciare, quanto facili da ignorare o, al massimo, da dimenticare?


A chi ha fatto della poesia la propria stessa esistenza, difendendo i diritti e la vita altrui; a chi scrive per ogni singolo ascolto e non  per i burocrati della cultura che ti concedono un premio o una medaglia; a chi paga la propria scelta qualunque prezzo, pur di non separare le parole dalle azioni; a tutti loro andrebbe rivolto uno sguardo speciale, più attento, più degno, per capire e imparare qualcosa sul senso della poesia. Il resto, per lo più, sono chiacchiere ombelicali e onanismi da salotto in forma di versi più o meno gradevoli, più o meno accattivanti, che però nulla cambiano o cambieranno delle nostre vite.


Anche la definizione di “poeta”, spesso, coincide coi funerali della poesia, perché in fondo cosa significa credersi o definirsi poeti? Essere poeta è forse un mestiere o un titolo nobiliare? È forse un qualcosa che fa di te una persona migliore e più sensibile? No, persino i peggiori criminali e gli assassini più feroci hanno scritto poesie delicate e versi profumati. Questo fa automaticamente di loro dei poeti e, quindi, anche delle persone più umane e buone? Diffido dei poeti che distinguono la poesia dalla vita reale. Diffido dei poeti quando credono che la poesia debba essere al di sopra e al di fuori della politica alta, delle ideologie nobili, dei valori universali. Chi fa questo per me confonde la poesia con la dattilografia.


Io stesso, pur avendo pubblicato un buon numero di libri di poesia, mi chiedo perché provo ogni volta un profondo disagio, direi quasi un fastidio, quando mi sento definire “poeta”. Non è una forma di snobismo o un modo per atteggiarsi al ribelle di turno che va controcorrente, ma è proprio che non amo e non mi riconosco in questa definizione che, fosse per me, abolirei senza alcun rimorso. Inoltre se, come già detto, la poesia è davvero uno stato dell’essere che appartiene a tutti, dire a qualcuno che è un poeta è inutile e superfluo, perché è come se gli si dicesse che è un essere umano. E poi, in fondo, non è forse vero che la poesia sopravvive sempre a chi la scrive?

 
Forse non ho aggiunto o tolto nulla a ciò che è stato già detto e scritto, di certo non ho risolto dubbi o inaugurato altre frontiere con nuovi adepti, perché sono già sufficienti le innumerevoli correnti che oggi si intestano stili e forme poetiche, lasciando però che il mondo vada in fiamme. Direi quindi che basta, che di quella roba non se ne può più, ma voglio solo ribadire la convinzione che le nostre vite possono migliorare solo raggiungendo un’equità e una giustizia sociale che ci permetta di aprire le porte e abbattere i muri, sia dentro che fuori di noi. Per arrivare anche solo a immaginare di raggiungere qualcosa di simile, la poesia potrebbe tornare utile, a patto che non resti sul suo piedistallo e si apra al resto degli altri linguaggi. A patto che si materializzi finalmente quella “scuola della Poesia” sognata da Leo Ferrè, in cui egli concludeva: “… I versi devono fare l’amore nella testa dei popoli / alla scuola della poesia non si impara, ci si batte!”