RiEvoluzione Poetica

lunedì 4 aprile 2016

La musica dei nativi americani nelle cerimonie sacre



ALIAS – novembre 1998

Balla coi cervi


di Marco Cinque



Percorrendo all’indietro i sentieri di note dei nativi d’America, troviamo un ricchissimo patrimonio espresso, per lo più, nelle cerimonie sacre, nei pow wow (incontri intertribali), nelle survival schools (dove si insegna la cultura orale, propria dei nativi americani, apprendendo le specifiche identità e peculiarità), e negli album che raccolgono brani troppo etnici per essere capiti ed apprezzati dal vasto mercato mondiale della musica. In quest’ultimo caso, l’inevitabile scollamento delle note dalla parte figurata della musica tribale, determina anche una sua più difficile comprensione.
Negli amerindi il suono ha avuto sempre un valore altamente spirituale e sacrale. Questo è un ulteriore motivo che ne impedisce, particolarmente nelle composizioni di carattere religioso, una commercializzazione selvaggia e una conseguente svendita dei loro patrimoni culturali e musicali.
Le “voci di dentro” che esprimono le note intrise di pathos ancestrale, sono legate sostanzialmente ai riti e alle cerimonie sacre dei nativi. Tutte le varie deer dance, peyote dance, eagle dance, sun dance, ecc., si manifestano attraverso i suoni, coi passi cerimoniali e nei significati simbolici espressi con l’abbigliamento e gli accessori sacri.
La musica nativa è talvolta legata e interconnessa ad una sensazione poco gradita: la sofferenza. Ma il suono lenisce il dolore, è medicina per l’anima e per il corpo e favorisce il contatto col mondo magico e visionario.
I partecipanti alle cerimonie più dure sono sostenuti da una solida impalcatura di suoni; siano questi sibili di fischietti o pulsare di tamburi, raschio dei suonatori di raspe o i suoni gracchianti dei sonagli di zucche. La sofferenza si attenua avvolta in una “trance” di note che infondono coraggio, fiducia, determinazione. Come ad esempio nella sofferta sun dance, dove ci si lascia lacerare le carni dei pettorali, fischiando ininterrottamente in un fischietto d’osso o di canna e danzando tra battiti di tamburo. O nella diffusissima sweat lodge (capanna sudatoria), dove talvolta si intonano canti che rievocano il ricordo ancestrale del travaglio della nascita. Nella sweat lodge è buio, caldo, umido e tutti quelli che vi partecipano sono nudi: un esplicito riferimento simbolico al ritorno nell’utero materno, dove si appianano i conflitti e dove tutti tornano uguali.
Ma il dolore che accompagna le musiche nelle cerimonie sacre non ha, come si potrebbe pensare, significati “masochistici” o retaggi di arcaico autolesionismo; funziona invece come rito di passaggio.
Tra gli indiani yaqui, che sono circa 30mila e vivono tra il Messico e l’Arizona, una delle cerimonie più diffuse è la deer dance (Danza del Cervo). Qui il danzatore si adorna con una testa di cervo fissata sul capo e con gli occhi bendati da un panno, a simboleggiare il mondo visto attraverso gli occhi dell’animale. Dalle estremità delle corna pendono dei fazzoletti variopinti e il danzatore – accompagnato dal ritmo dei tamburi ad acqua, dal suono del flauto e dallo sfregamento delle raspe – imposta i suoi passi impugnando due gourd rattles, cioè sonagli di zucca. L’intero addobbo si chiama rihutiam e rappresenta lo spirito di tutti i cervi che sono morti per far vivere gli umani. Se ci si concentra sulla testa del quadrupede, senza badare al danzatore, si ha la netta impressione di assistere alle movenze di un vero cervo. Per gli yaqui, il cervo (o Maso) è considerato come un fratello: saai maso è infatti la parola yaqui per dire “Fratello Cervo”.
Per farsi apprezzare dal resto del mondo, la musica nativa sta uscendo dai suoi percorsi sacri e dai riti cerimoniali; parlando (anche) l’inglese e intonando note occidentalizzate, però, mai dimentica dell’identità e dell’eredità lasciatale dai padri. Una musica, quindi, che si presta volentieri a farsi “contaminare”, ma che non cancella in nessun modo il ricordo di essere se stessa.

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