RiEvoluzione Poetica

mercoledì 29 giugno 2016

IL PUNTO DI VISTA DEL BOIA




di Marco Cinque

Nella storia delle esecuzioni capitali la figura del boia è stata sempre malvista: un sanguinario privo di sentimenti che uccide a sangue freddo, un bieco maniaco che fa il suo sporco lavoro senza batter ciglio e in nome di una società che si auto-considera ben più civile di lui. Si usa dare del boia a qualcuno solo in segno di assoluto disprezzo.  Insomma, appellare una persona col sinonimo di “boia” equivale ad una spregevole offesa. Eppure gran parte delle persone che disprezzano disgustate i carnefici di stato, sono sovente le stesse che si dichiarano favorevoli alla pena di morte. Ma sporcarsi le mani di delitti legalizzati non è altrettanto grave che consentirli e, talvolta, plaudirli? E’ quantomeno singolare considerare morale l’omicidio legale e immorale chi lo esegue.
Charles Duff, nel suo grottesco e a tratti esilarante “Manuale del boia”, affermava che un boia degno di portare questo nome deve possedere dei requisiti superiori alla norma: avere una vasta cultura generale, essere umanamente sensibile, coltivare con serietà la propria evoluzione professionale, avere buone capacità dialettiche e altre amenità. Neanche un’eventuale fede religiosa deve, secondo Duff, mettere in dubbio l’onestà spirituale del buon dispensatore di morte. Così un boia può essere anche un cristiano praticante o un fervente di qualsiasi altra religione, coniugando fede e professione in un connubio dalle stridenti dissonanze. Infine, Duff arriva a paragonare il supremo supplizio al “più grande spettacolo del mondo”, e non sembra che abbia tutti i torti, vista l’imponente voglia di forca che ha attraversato, arrivando fino ai giorni nostri, la storia dell’umanità.
Nella Roma papale dei secoli XV-XIX, sia governanti che governati erano accomunati da una scarsa considerazione per la vita altrui e il boia ricopriva una figura rilevante nei costumi sociali di quell’epoca. Per i condannati non esisteva né comprensione né pietà, ma anche allora le sentenze capitali venivano condizionate, esattamente come oggi, dalla discriminazione razziale, economica e sociale. Su zingari, ebrei, omosessuali, schiavi moreschi, ecc., pesava invariabilmente la condizione di “diversi” e le già probabili sentenze di condanna venivano ulteriormente aggravate.
I luoghi più consueti per i patiboli capitolini erano Piazza Navona, Campo de’ Fiori, Piazza del Campidoglio, Ponte Sant’Angelo, ma non ci fu piazza, slargo o altro luogo della città che rimase immune dal trasformarsi in teatro di morte, con tanto di pubblico acclamante. L’opera dei boia romani influenzò anche la toponomastica cittadina, tanto che persino la chiesa di San Nicola degli Incoronati venne denominata “de furca”.
I metodi di esecuzione capitale più diffusi erano l’impiccagione e la decapitazione, ma non era infrequente l’utilizzo di sistemi ancor più crudeli e cruenti. Nel ventennio che intercorse tra il regno di Sisto V e quello di Clemente VIII ci furono 5000 giustiziati, per una media di 250 esecuzioni annue; ma, a quell’epoca, l’alto numero di esecuzioni capitali non era solo un’esclusiva di Roma. Anche a Parigi venivano consegnate nelle mani del boia non meno di 60 persone l’anno. Le esecuzioni sui patiboli romani erano diventate talmente consuete e “naturali” che nel XVII secolo si pensò bene di trasformarle addirittura in uno spettacolo carnevalesco (nel vero senso del termine). Si dice che lo stesso Papa Sisto V presenziasse le esecuzioni facendosi portare spuntini e merende, visto che quegli indegni spettacoli sembravano stimolargli l’appetito. L’ignobile costume popolare di riservare al Carnevale le esecuzioni più clamorose, si protrasse fino al termine del XVIII secolo. 

In rapporto percentuale, calcolando che la Roma di quei tempi contava più o meno 250mila abitanti, ogni anno veniva condannata a morte e consegnata nelle mani del boia almeno una persona per ogni seicento cittadini. Oggi, per fortuna, non esiste un paese al mondo che riesca ad avvicinare, anche lontanamente, queste stesse proporzioni.
Purtroppo ancora oggi, benché non molti ne siano a conoscenza, il paragrafo 2267 del Nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica, in palese contraddizione con lo stesso V Comandamento, ammette l’omicidio legale con queste testuali parole: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani.”
Perciò, qualora se ne presentasse l’occasione storica e politica a seguito di un possibile degrado socio-culturale, il boia è ancora pronto a tornare tra noi.

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