RiEvoluzione Poetica

domenica 3 aprile 2016

La musica dei nativi americani



ALIAS  
venerdì 13 febbraio 1998
FUORI RISERVA

Suono, memoria

di Marco Cinque


La musica dei nativi d’America, s’intende quella più tradizionale, può risultare alquanto “indigesta”. Uno dei motivi è la sua estrapolazione dai contesti originari. Infatti si parla di un percorso comunicativo che non si avvale esclusivamente del messaggio uditivo, ma che è un insieme di espressioni da collocarsi nella più appropriata definizione di “drammatizzazione”: i passi di danza, le movenze, i paramenti, i colori, ecc., sono “note altre” che insieme alle note suonate e ai canti si fondono in un unico sentiero musicale, sia questo fatto di passioni e di perdite, di ombre e di luci, di vita e di morte; ma, soprattutto di memoria. Per i nativi la memoria è fonte di tutto, del loro presente, dei loro sogni. E’ un sapere da raccontare e tramandare, anche con le note.
E’ una musica, quella nativa, che si compone senza mai dimenticare le sue radici, le sue origini. Anche nelle versioni più moderne e sofisticate troviamo abbondanti tracce che rimandano a un passato ancestrale mai seppellito. E i generi musicali con i quali la tradizione amerindiana si complementa sono praticamente tutti: dal country al folk, dal rock al jazz, dal blues al rap, fino ad arrivare alle suggestioni della new age. Gli autori nativi quindi non disdegnano la musica non-nativa (“bianca” o “nera” che sia), ma non si convertono mai completamente, non lasciano cancellare i loro retaggi, al contrario, si identificano ancor oggi nella famosa frase di Toro Seduto: “Prendete ciò che c’è di buono dalla cultura dell’uomo bianco e lasciate perdere il resto…”. Il “resto”, nel campo della musica occidentale, lo troviamo proprio nell’assenza sempre più frequente di memoria e in una tendenza autocelebrativa della razza umana, soprattutto quella “civilizzata”. Una pianta senza radici resta verde per poco, così anche la maggior parte delle composizioni musicali contemporanee: si limitano ad essere merce che si tramanda al massimo per un paio di stagioni. E’ proprio a causa di questa assenza di memoria che tante composizioni non possono essere apprezzate se non al momento del loro confezionamento. Così è. Senza radici la musica resta muta. Per i nativi, inoltre, la musica non è propriamente nata con loro, ma con la terra. Con la Madre Terra. Ed è con essa che si svela: il sibilo del vento, lo scorrere del ruscello, lo sciogliersi del tuono, il ticchettio ritmico della pioggia. Tutto ciò è musica, Sono musica il grido penetrante dell’aquila, il magico ululato del lupo, il canto della civetta. Sono musica ancor prima dell’avvento della specie umana.
Da questo concerto ancestrale i popoli amerindi hanno sempre tratto la loro ispirazione, coniando note senza tempo, tramandando di bocca in bocca, di strumento in strumento, fino alle ultime generazioni, la storia della loro esistenza. “Antichi tamburi di guerra stanno battendo nel mio cuore”, sembra essere il canto di rivincita del “Popolo Rosso” che, stanco di percorrere sentieri di lacrime, sta prendendo sempre più spazio nell’universo letterario, cinematografico e musicale. Una “rinascita” di cui molti si stanno accorgendo. Lo testimoniano, infatti, le innumerevoli pubblicazioni librarie, le produzioni di film (si è da poco concluso il Sundance Festival che ha consacrato il successo di molti film “indiani”, tra cui “Smoke Signal”, il primo interamente scritto, prodotto, diretto e interpretato da nativi americani) e, non ultimi, gli album musicali.
Ma non sono esclusivamente nativi gli autori di musica “nativa”, al loro filone etnico si vanno convertendo schiere sempre più numerose di artisti non-nativi, affascinati o semplicemente interessati da una musicalità e da una ritmica antica e nuova al contempo. “Arrivano i nostri”, dunque, ma sembra che stavolta non saranno i “visi pallidi” a galoppare verso la gloria.





mercoledì 23 marzo 2016

Dialogo tra un italiano e un non

di Marco Cinque

NON: Che significa essere italiano?
ITALIANO: Significa nascere in Italia, cioè un paese stupendo, con una democrazia, una Costituzione meravigliosa, la storia, l’arte, la poesia, la musica, il mangiare buono, la moda, la Ferrari, la Nazionale, fantasia, simpatia, generosità, creatività, ma…
NON: Ma?
ITALIANO: Ma la situazione attuale ci sta precipitando nel degrado più assoluto, non è più sostenibile, uno schifo totale.
NON: E di chi sarebbe la colpa di tutto questo?
ITALIANO: Ad esempio gli zingari, quelli lì, proprio davanti casa mia, li vedi?
NON: Vuoi dire i Rom?
ITALIANO: Sì, Rom, ma sempre zingari sono. Non li vedi? Rubano, mandano i figli e le mogli a mendicare, vivono nei campi nomadi ma hanno auto di lusso e sono miliardari. Se non fai attenzione rapiscono i tuoi bambini e li rivendono o li tengono come schiavi. Si rifiutano di lavorare e preferiscono fare gli zingari, così come fanno. Devono tornare a casa loro!
NON: Scusa, sorvoliamo sulla serietà di tutte le accuse che muovi, ma molti di loro sono italiani e sono già a casa loro. Dove vorresti mandarli?
ITALIANO: Non lo so e non mi interessa, l’importante è che se ne vadano via, che non rovinino l’Italia.
NON: Scusami ancora, ma non potendo andare in un altro paese e non potendo restare in Italia, allora dovrebbero essere rinchiusi in luoghi recintati e controllati, tipo campi di concentramento?
ITALIANO: Ti ripeto che non lo so e non è un problema mio. Il problema è che loro sono un problema.
NON: Beh, da questo ragionamento si capisce come sia stato possibile per gente come Hitler e Mussolini prendere il potere e fare quello che hanno fatto.
ITALIANO: Che c’entra? Quello era un altro momento storico, adesso è diverso. Prova a viverci tu con gli zingari fuori dalla porta di casa tua e poi mi racconti.
NON: E bastano gli zingari per fare dell’Italia uno schifo?
ITALIANO: Magari! ci sono anche queste invasioni di immigrati, soprattutto gli islamici, che tra un po’ ci butteranno fuori e si prenderanno il nostro paese.
NON: Così pensi che tutte le persone che scappano dalle guerre, dalla miseria e dalla fame siano intenzionate a prendersi l’Italia e a mandare via gli italiani?
ITALIANO: Beh, ma non lo vedi? Non vedi che stanno rubando il lavoro dei nostri figli? Non vedi che mettono le bombe dappertutto? Che vogliono costringere le nostre donne a mettersi il burqa? E tutti questi cinesi che stanno facendo fallire le nostre aziende? E i neri che sbucano da tutte le parti e ti chiedono l’elemosina senza pagare le tasse? E quelli che spacciano droga ai giovani italiani? E le prostitute che magari ti attaccano pure una brutta malattia e rovinano le famiglie? E le badanti che maltrattano i vecchietti e si fanno intestare la loro casa? Possibile che non riesci a renderti conto che sarebbe ora di farla finita? Che se ne tornino a casa pure loro, sai quanti problemi avremmo risolto.
NON: Così pensi che se sparissero Rom e immigrati, senza peraltro curarti di capire come farli sparire, allora l’Italia sarebbe un paese migliore?
ITALIANO: Sicuramente migliore di quello che è adesso, anche se ci sarebbero altri problemi da risolvere, però avremmo fatto un grande passo in avanti.
NON: Devi però considerare che, per un sacrosanto principio di reciprocità e di equità, se l’Italia dovesse espellere tutti i non italiani o anche quelli semplicemente non graditi come i Rom, allora poi dovrebbe riprendersi tra i suoi confini tutte le decine di milioni di emigranti italiani in giro per il mondo, col risultato che questo paese diventerebbe il più sovraffollato del pianeta.
ITALIANO: Ma gli italiani sono diversi, sono più onesti, lavorano, portano cultura, insegnano agli altri a mangiare bene. Non c’è proprio confronto.
NON: Continui, fin dall’inizio, a ragionare per stereotipi, regalando agli italiani quelli positivi e affibbiando ai non italiani o agli ospiti sgraditi quelli negativi. Allora, da non italiano, ti invito a ribaltare la prospettiva e a ragionare su questo: Voi italiani votate politici ladri e corrotti, vi fate governare da loro perché anche voi siete tutti ladri e corrotti. Siete mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti. Siete razzisti, bestie che vanno allo stadio per picchiarsi, spararsi e accoltellarsi. Siete evasori e scansafatiche, volete il posto di lavoro ma non volete lavorare, timbrate il cartellino e poi vi fate i fatti vostri. Truffate continuamente lo Stato facendovi passare per disabili e per prendervi pensioni che non vi spettano. Vi riempite di sputi e schiaffi nelle vostre riunioni condominiali per scemenze: il rubinetto che goccia, la lampadina che non si accende e altre amenità. Riempite di escrementi di cane i marciapiedi. Acquistate a caro prezzo i vostri cani di razza, mentre lasciate i canili pieni, alla faccia della sensibilità verso gli animali. Saltate sempre la fila cercando di gabbare chi vi precede. Parcheggiate in doppia e tripla fila, in curva, ostruite gli accessi ai marciapiedi previsti per le carrozzine e occupate i posti riservati ai portatori di handicap. Manganellate gli operai e gli studenti che chiedono il rispetto dei diritti. Sfrattate senza pietà intere famiglie. Lasciate i vostri bambini nelle mani di preti pedofili e regalate l’8 per mille ai cardinali che si rimpinzano a vostre spese. Sfruttate i lavoratori stranieri, li fate lavorare in nero. Quando siete nelle vostre automobili vi riempite di insulti, siete capaci di ammazzarvi per un nonnulla. Voi italiani andate nei paesi poveri a depredare le loro ricchezze, le loro risorse. Riempite di rifiuti tossici e di veleni radioattivi quei paesi (lo fate anche in casa vostra). Tornate ancora in quei paesi per fare le vostre guerre chirurgiche e umanitarie. Esportate miliardi di armi in quei paesi e pretendete che restino pacifici. Picchiate le donne, le stuprate, le ammazzate, lo stesso fate coi bambini, soprattutto all’interno dei vostri nuclei famigliari. Pretendete che di voi emerga solo lo stereotipo buono, così avete governanti pagliacci fatti a vostro modello e misura: i Berlusconi, i Renzi, i Grillo, i Di Maio, i Salvini (per citare i più tragicamente comici), che portano la vostra immagine in giro per il mondo. Ma il mondo forse si è fatto un’idea non proprio degna sul vostro conto.

MORALE DELLA FAVOLA
Lo stereotipo, come unità di misura per giudicare una persona, una comunità, un gruppo etnico, una cultura o un popolo, è il mezzo più rapido ed efficace per condurci al conflitto.

giovedì 14 gennaio 2016

ORSO-CHE-CORRE - 15esimo anniversario della morte

Queste sono le parole di Ray "Orso-che-corre" Allen, per ricordarlo nel 15° anniversario della sua uccisione tramite iniezione letale, avvenuta il 17 gennaio 2006, giorno in cui aveva compiuto 76 anni, dopo averne passati 30 in un piccolo buco di un metro e mezzo per tre, nel braccio della morte californiano di San Quentin. Orso-che-corre era affetto da un diabete che lo aveva reso quasi cieco e lo costringeva a deambulare su una sedia a rotelle, che non entrava nell'angusta camera della morte, così i secondini sono stati costretti ad alzarlo di peso per farlo passare nella porticina dell'ex camera a gas. Inoltre, in carcere era stato colpito da due infarti, l'ultimo appena tre mesi prima dell'esecuzione. Lo hanno curato come mai avrebbero fatto se fosse stato un uomo libero, perchè forse volevano avere loro tutto l'onore. Dall'istante in cui gli è stato iniettato il liquido velenoso, il suo cuore ha continuato a battere per 15 minuti. Le sue ultime parole sono state "Ho-ka-ha", che nella sua lingua Cherokee significano: "oggi è un buon giorno per morire".
 

Ray "Running Bear" Allen, dal braccio della morte di San Quentin, California... 

Sono nato nel 1930, il mio nome indiano è
Ya-nu a-di-si, che significa Orso-che-corre. Sono per metà Cherokee da parte di mia madre e per metà Choctaw da parte di mio padre. Vorrei condurvi sulla strada che ho percorso quando ero un giovane ragazzo, cresciuto nella terra dell’uomo bianco, in Oklahoma.


Eravamo molto poveri, come la maggior parte della gente di allora. La cosa che ricorderò per sempre, è l’amore e la comprensione che avevano per noi bambini la nostra piccola madre e il nostro fierissimo padre. A me e a mio fratello furono insegnate molte cose, come pescare e cacciare, oppure come curare le ossa rotte e i morsi di serpente. Ci fu insegnato quali piante prendere per poterle mangiare e anche quali potevamo usare per curarti quando eri ammalato. Molte di queste cose ci furono insegnate dai membri della nostra tribù. Certo, ho avuto una vita molto dura allora, ma per merito dei miei genitori la mia infanzia è stata molto felice.

Ma voglio parlarvi di dove vivo adesso: mi trovo nel braccio della morte, qui, nella prigione di San Quentin, in California, da ormai 25 inverni. Fino ad oggi ho ricevuto tre date di esecuzione, ma ogni volta, all’ultimo minuto, il “Nonno” (il Grande Spirito) si è fatto avanti e non ha permesso allo Stato di prendersi la mia vita. Quando loro parlano della “giustizia uguale per tutti”, il vecchio Orso-che-corre non sorride di queste parole prive di significato. Al momento, sono in appello presso la Corte federale e sto cercando di ottenere un nuovo processo, per dimostrare finalmente che non sono in alcun modo colpevole del crimine per cui vogliono togliermi la vita. Ma, nel caso le cose dovessero andar male e la mia vita dovesse essere presa dallo Stato della California, non siatene tristi, cari amici. Molti uomini e donne sono già stati sentenziati per crimini che non hanno mai commesso. Il vecchio Orso-che-corre non sarà il primo, e dal modo in cui stanno andando le cose sono convinto che sarò lontano dall’essere l’ultimo.

Ora, vorrei ringraziare di cuore il mio meraviglioso fratello adottivo, Marco Cinque; il nome indiano che gli ho dato è “
U-wo-li gi-ga-ge”, che significa “Aquila Rossa”. E grazie anche alla sua amorevole moglie Lina “Summer Sun” e a suo figlio Stefano “Little Warrior”, per il modo in cui amano questo vecchio Orso. Un grande “WA-DO” (grazie dal centro del cuore), a un altro meraviglioso fratello adottivo: Maurizio “Drum Dancer” Carbone, che assieme a Marco “Red Eagle” portano Orso-che-corre a spasso per l’Italia, per farlo conoscere a tante persone, soprattutto a quei dolcissimi bambini delle vostre scuole. Senza il loro amore e sostegno questo tepee di cemento non avrebbe lo splendore che ha.

Fratelli e sorelle, io prego il "Nonno" di infondere saggezza in tutti quelli che stanno ascoltando queste parole. Ho paura che il mio tempo sulla Madre Terra sarà breve ormai, ma prego che non sia così. Vorrei potervi stringere le mani prima di andare dal "Nonno" però, in caso contrario, vi aspetterò un giorno nel mio bel tee-pee rosso in mezzo alla grande prateria, lassù, nei Celesti Pascoli.

Conosco così tante persone nel vostro paese che, purtroppo, ho potuto vedere solo nelle fotografie che mi hanno mandato; ma ogni volta che mi siedo nella mia cella buia penso di essere molto fortunato ad avere degli amici che mi stanno dando supporto come una vera famiglia. Hanno fatto così tanto per me, tenendo vivo il mio spirito con i loro segnali di fumo gentili e pieni di amore.

Camminiamo sulla Madre Terra per un breve tempo, ma se proprio dovessi andare dal "Nonno" prima d'incontrarvi, allora ricordatemi come un uomo semplice ingiustamente condannato per un crimine che non ha mai commesso. Ho sempre cercato di vivere una vita onesta. Certo, talvolta non mi è riuscito.

Dal buio di questa cella, sento il vostro spirito e il vostro amore mentre ascoltate le mie parole e vi dico che nessuno ha degli amici come li ho io; così, auguro che tutti i vostri sogni si possano trasformare in realtà.

Possa il Sole portarvi nuova energia durante il giorno e la Luna ristorarvi dolcemente in ogni notte. Possa la pioggia lavare via le vostre preoccupazioni e la brezza soffice inebriare di forza i vostri corpi. Possano i vostri sogni galoppare tra le nuvole e i vostri pensieri inseguirsi tra le Stelle e possiate ogni giorno, per tutti i giorni della vostra vita, camminare liberi nella bellezza di questo mondo.

Ma voglio lasciarvi con queste parole: “Vogliate bene alle vostre famiglie con tutto il cuore. Vogliate bene ai vostri compagni e compagne più che potete. Vogliate bene ai bambini e non smettete mai d'insegnar loro cos'è l'amore”.

vostro
Orso-che-corre


§§§


L'ultima poesia scritta da Orso-che-corre:
 

SONO QUI


Non stare a piangere sulla mia cenere.
Non sono là. Non sono morto.
Io sono mille venti che soffiano.
Io sono lo splendore nella neve.
Io sono le lacrime che luccicano nei tuoi occhi.
Non piangere per me. Non sono morto.
Io sono il sole sui tuoi capelli: guardami.
Io sono dappertutto.
Per favore, non stare a piangere per me.
Non sono là. E non dormo…


§§§

Qui una mia poesia a lui dedicata: 

Per mio fratello ucciso

 

 

venerdì 8 gennaio 2016

PENA DI MORTE? ECCO, CI RISIAMO


di Marco Cinque

Prendo spunto da un orrendo, ennesimo fatto di cronaca, ma anche dalle inaccettabili, feroci e reiterate violazioni dei diritti umani verso le categorie umane più fragili e indifese che, giustamente, colpiscono l’indignazione di ogni persona sensibile che ha a cuore le vittime innocenti di tali infausti eventi.

Svariate persone tra i miei amici e le mie amiche, spesso, manifestano una sorta di predisposizione o sono persino favorevoli al ritorno della pena di morte riguardo ad alcuni crimini, soprattutto quelli più odiosi ed efferati. Vorrei innanzitutto chiarire che la mia contrarietà assoluta, senza se e senza ma, alla pena di morte, non significa che io giustifichi o difenda o approvi i criminali e/o i crimini che essi compiono. Nient’affatto.

Dunque, ragionandoci sopra, provo a partire da me stesso come individuo, come persona, come singolo essere umano e, senza ipocrisie ma in tutta onestà, mi chiedo: cosa farei se qualcuno/a uccidesse mio figlio, torturasse mia madre, facesse a pezzi mia moglie, stuprasse i miei nipoti e via dicendo? Ora, per mia grande e buona fortuna, non mi è dato sapere quella che potrebbe essere la mia reazione, ma non posso escludere, nel modo più assoluto, che potrei anche essere capace di una reazione cruenta, violenta, fino ad arrivare a trasformarmi persino in un omicida.

Attenzione però, questa sarebbe solo una mia reazione individuale che non avrebbe la pretesa di fungere da modello o essere educativa per chicchessia, sarebbe solo la mia personale e umana risposta a un grande dolore che è stato inflitto, sia a me stesso che alle persone a me più care.

Quando invece parliamo di “pena di morte”, non ci stiamo più riferendo a reazioni individuali, ma a una risposta istituzionale di un intero Paese, uno Stato o un governo che rappresenta tutti e che, in quanto rappresentante di tutti, deve essere modello di riferimento e promuovere messaggi educativi e costruttivi.

Ma cos’è la pena capitale se non un messaggio palesemente contraddittorio attraverso cui, uccidendo, si pretende di insegnare a non uccidere? E’ come se un insegnante pretendesse di insegnare la non violenza usando la violenza sui suoi stessi alunni. “Una guerra – per ricordarlo attraverso le parole di Albert Camus – che un intero Stato dichiara a un singolo cittadino”. O ancora, citando come esempio il monito del reverendo Jessie Jackson: “quando è uno Stato ad uccidere siamo tutti boia”.

E, dunque, come potrebbe mai uno Stato davvero civile, mi chiedo, considerare immorale e improponibile il fatto di legalizzare e far propri reati come il furto, la truffa, lo stupro ed ogni altra sorta di sevizia, per poi non esitare a legalizzare e far proprio, nel modo più freddo, razionale, spietato e premeditato, il peggiore di tutti i crimini: l’omicidio?

La “legge del taglione” ha caratterizzato, fin dagli albori della civiltà umana, l’organizzazione sociale di molte comunità. Di fatto la pena di morte è uno strumento punitivo, impropriamente considerato il “braccio severo della giustizia”, che non possiede affatto il dono dell’equità. Se ad esempio il presidente di una nazione ordinasse (come è capitato e continua a capitare), per motivi strategici, di bombardare una comunità che ospita anche persone inermi, non ci sarebbe mai nessun giudice o giuria a condannarlo. Quel massacro sarebbe considerato al massimo un effetto collaterale, utile e necessario a mantenere intatta l’integrità della giustizia dominante corrente. Più facilmente, al mandante e agli esecutori di quelle stragi verrebbero riconosciute virtù molto vicine al coraggio e all’eroismo.

Se invece una singola persona, che magari ha pure la sventura di appartenere a un ceto sociale umile, uccide un altro essere umano, ecco che avrà forti probabilità di trasformarsi in un feroce assassino, un bruto, un mostro. Ma dov’è davvero la differenza tra gli omicidi di un presidente e quelli di un poveraccio? Forse nel potere che ognuno di essi detiene e rappresenta? O nel numero delle vittime soppresse: quando sono troppe, allora il mostro diventa eroe?

Uno dei cavalli di battaglia dei sostenitori della morte legale sta nell’affermare che tale sanzione avrebbe un potere deterrente e intimidatorio verso i potenziali criminali, ma i dati statistici di ogni epoca storica hanno dimostrato e continuano a dimostrarci che questo non è vero. Al contrario, proprio nei paesi dove vige la pena di morte, prospera e si propaga la criminalità più efferata. Una statistica inglese dei primi del 1900 affermava che su 250 impiccati 170 avevano precedentemente assistito ad una o più esecuzioni capitali. Sempre in Inghilterra, all’epoca in cui la pena di morte era prevista anche per ladruncoli e truffatori, durante ogni esecuzione pubblica venivano presi con le mani nel sacco almeno un paio di borsaioli mentre alleggerivano gli spettatori che assistevano all’impiccagione dei loro “colleghi di lavoro”.

Oltre alla questione morale (se sia o meno giusta la pena capitale) e alla luce dei dati statistici che denotano una visibile flessione dei reati di omicidio nei paesi abolizionisti, vien da pensare che la pena di morte non sia utile né a combattere e né, tantomeno, a cancellare l’ingiustizia e il crimine dalla faccia della terra.

Concludo con una provocazione, affermando che se mai mi ritenessi favorevole alla pena di morte, dovrei assumermi totalmente la responsabilità di ciò che dico o auspico. Vale a dire che se dovessi davvero prevedere una morte, persino lunga e dolorosa, all’odioso mostro di turno, quel lavoro sarebbe giusto lo facessi con le mie stesse mani, senza demandarlo al boia di turno che, in tal modo, mi dispenserebbe dal ritenermi l’autore materiale di quel crimine, evitandomi di conviverci per il resto della mia vita.

Nel mio più che ventennale lavoro itinerante che cerco di portare avanti, soprattutto tra i giovani e nelle scuole, provo ogni volta a gettare i semi per sognare assieme un mondo migliore, più giusto e umano di quello attuale. Pertanto, non posso avere tentennamenti o esitazioni o ambiguità sulla questione “pena di morte”, ecco perché dico e dirò, sempre e comunque, un fermo NO ad ogni sua ipotesi o forma, continuando a credere sino in fondo in quel “restiamo umani” con cui Vittorio Arrigoni concludeva ogni suo scritto. Una mia, seppur minima apertura verso qualunque violenza premeditata dell’uomo sull’uomo, tradirebbe questo principio e mi renderebbe parte integrante e partecipe della disumanità che dico di voler combattere.