RiEvoluzione Poetica

martedì 26 novembre 2013

Intervista al poeta e attivista Lakota-Oglala Luke Warm Water, in Italia per reading e incontri in sostegno del detenuto politico Leonard Peltier, emblema dei prigionieri nativi americani

di Marco Cinque

Luke Warm Water, alias Kurt Schweigman, è un poeta e attivista Oglala Lakota cresciuto a Rapid City, nel South Dakota. La sua poetica è stata considerata una fusione tra Sherman Alexie, Charles Bukowski e Tom Waits. È stato il primo «spoken-word poet» cioè poeta della parola orale a ricevere il premio Archibald Bush Foundation ed è stato un artista di spicco al prestigioso Geraldine R. Dodge, durante la 12° Biennale di Poesia Festival.
Luke è avvocato ed epidemiologo e attualmente vive ad Oakland, in California. Il prossimo 21 e 22 novembre, il poeta Lakota sarà in Italia, a Roma, per un reading organizzato dall'associazione Café Voltaire e per un incontro in un istituto scolastico, il liceo G.B. Morgagni, a testimoniare contro le discriminazioni che ancor oggi si consumano ai danni dei popoli nativi negli Usa, ma soprattutto a promuovere la causa del detenuto politico Leonard Peltier, tra i primi fondatori dell'American Indian Movement. Il nativo di ascendenza Ojibwa Lakota fu condannato a 2 ergastoli nel 1975, dopo essere stato ingiustamente accusato dall'FBI di 2 omicidi avvenuti nella Riserva di Pine Ridge. Da allora Peltier è rinchiuso in una cella, a scontare un sentiero di lacrime che sta durando ormai da più di 37 anni. Oltre che dal Manifesto, la causa di Peltier è stata sostenuta, tra gli altri, dal Dalai Lama, da Desmond Tutu, ma anche da artisti come Robbie Robertson e Bruce Springsteen che gli hanno dedicato dei brani musicali.
Luke Warm Water è membro delle Revolutionary Poets Brigade, gruppo nato durante Occupy San Francisco e fondato da Jack Hirschman, Bob Coleman, Sarah Menefee e Cathleen Williams. Le RPB da allora sono cresciute, arrivate anche in Europa, con un gruppo attivo a Roma che affiancherà Luke nel reading capitolino. Attualmente la tribù poetica internazionale delle RPB è molto presente soprattutto nel vivo del tessuto sociale (scuole, piazze, carceri, periferie, etc.), con esibizioni a Bagdad e nel mondo, portando la parola di quei poeti che sostengono la voce dei poveri, degli ultimi, degli oppressi, dei discriminati.
Grazie quindi alla presenza di Luke Warm Water, cogliamo l'occasione per tornare a parlare di Peltier e dell'attuale situazione in cui versano i popoli nativi del Nord America.

Prima di tutto, quali sono le ultime notizie su Peltier.Le notizie più recenti su Peltier si possono leggere sul sito www.whoisleonardpeltier.info. Invito i lettori a leggere il sito, a firmare la petizione per il suo rilascio e a scrivere ed inviare a Leonard un biglietto di auguri al suo indirizzo nella prigione della Florida; l'indirizzo è reperibile sul sito. La salute di Leonard è andata peggiorando negli ultimi anni ed è più importante che mai che il Presidente Obama gli conceda la grazia per consentirgli di vivere come un uomo libero i suoi ultimi anni insieme alla sua famiglia, ai suoi amici e agli Oyate, il suo popolo.

Peltier è solo la punta di quell'Iceberg di discriminazione e razzismo che si consuma nei tribunali e nelle carceri degli Stati uniti. Percentualmente infatti i Nativi americani sono in cima alla classifica sia delle incarcerazioni che delle condanne capitali e possono inoltre "godere" di leggi razziali come la «Major Crime Act». Credi che qualcosa stia cambiando o che ancora possa cambiare? Non è cambiato nulla per i nativi americani. La percentuale dei nativi dell'intera popolazione carceraria negli Stati Uniti è superiore a quella di qualsiasi altro gruppo etnico. Peraltro, a parità di crimini commessi, i nativi vengono puniti più severamente nel Sud Dakota rispetto ai bianchi.

Ci sono segnali di «risveglio» delle popolazioni native nordamericane, anche quelle canadesi, col movimento di protesta «Idle No More» (mai più passivi), di cui abbiamo dato notizia sul «Manifesto». Che ne pensi?Idle No More è un movimento molto importante per in nativi e per le popolazioni autoctone di tutto il pianeta. Ho partecipato ad un evento organizzato da Idle No More a Oakland a inizio anno. È stato un bell'evento con molti partecipanti.

Qual è la situazione attuale delle popolazioni native negli States?Questa è una domanda complessa poiché esistono più di 500 tribù negli Stati Uniti. Vi è ad esempio il problema della nuova copertura sanitaria nazionale (Obamacare). Non sappiamo ancora che impatto avrà sui nativi americani poiché molti di loro e delle tribù hanno una copertura sanitaria minima come previsto dal governo. Io mi batto molto per migliorare la salute mentale dei nativi americani in California. Vedo un movimento per favorire il benessere tra le comunità indiane che si basa prevalentemente sulle tradizioni culturali e sulla spiritualità e questa è una cosa positiva. Sono inoltre a conoscenza di un progetto nel sud della California dove la clinica di una tribù fa uso di poetry slam per migliorare il benessere dei giovani nativi americani.

Secondo te che ruolo sociale, culturale e politico può avere oggi la poesia, in un mondo dove i linguaggi sono sempre più complessi, tecnologizzati e autoreferenziali?L'appartenenza alla Revolutionary Poets Brigade ha permesso a molti di venire a conoscenza delle ingiustizie subite dai nativi. Sono molto grato a Agneta Falk e a Jack Hirschman per avermi accolto nella RPB di San Francisco e a tutti gli altri membri con i quali ho stretto amicizia. Entrare a far parte della RPB è stato come un proseguimento del mio lavoro iniziato negli anni Novanta, quando scrivevo e portavo in scena la mia poesia per sensibilizzare l'opinione pubblica sul caso Peltier. Ho aiutato a organizzare eventi di raccolta fondi, scritto lettere ed effettuato campagne grazie alla mia poesia. Inoltre, ho partecipato ad eventi organizzati in nome di Peltier. Attualmente sto organizzando un evento che si terrà a San Francisco il 6 febbraio 2014, in occasione del 38° anno dell'incarcerazione di Leonard. Si chiamerà «Poetry for Peltier» (Poesia per Peltier) e vedrà la partecipazione di diversi poeti nativi americani della Bay Area di San Francisco.

Da quel che ho capito tu usi la parola poetica non come forma di vanità, affermazione individuale o esibizione e in particolare prediligi la parola detta piuttosto che quella scritta. C'è una ragione particolare?Preferisco entrambe le modalità, a dire il vero. La scrittura può essere molto emozionante quando si assiste alla nascita di una nuovo testo su carta (o sullo schermo di un computer), così come è emozionante portare in scena la poesia davanti a un gruppo di decine di centinaia di persone. Sebbene non partecipi più ai poetry slam, ne ho vinti diversi in tutti gli Stati Uniti e due in Germania. Per un poeta nativo americano gareggiare per la vittoria ha un grande impatto ed è un atto di rivendicazione. Percepisco che il pubblico si diverte ed al contempo impara.

Traduzione di Alessandra Bava

dal Sito de "il manifesto"
http://www.ilmanifesto.it/attualita/notizie/mricN/10139/

martedì 25 giugno 2013


SGUARDI NEL BUIO

Marco Cinque

Con Alberto Ramundo, presidente della Cooperativa l'Officina , è iniziato il lavoro su «FinePenaMai - sguardi nel buio», un progetto che entra nelle prigioni attraverso i linguaggi della poesia, della fotografia, del teatro e della musica, cercando di cogliere quelle voci prigioniere, troppo spesso taciute o dimenticate, per restituirle poi al mondo esterno. Quando non ammette che quel «silenzio» fa parte del suo stesso fallimento politico, istituzionale, giuridico, culturale e sociale riguardo alle disastrose politiche carcerarie, ormai distanti dagli stessi princìpi costituzionali.
Lungo la strada che ci porta a visitare i detenuti e le detenute dei penitenziari di Pesaro e quello di massima sicurezza di Fossombrone, ci intratteniamo per qualche battuta con l'addetto al rifornimento di carburante presso una stazione di servizio: «Questi mangiano, bevono e dormono gratis a nostre spese - ci dice il giovane benzinaio - e noi li manteniamo come se stessero in albergo». Forse è ciò che pensa anche una buona parte dei cittadini onesti di questo paese, ma se il carcere si limita ad essere soltanto un luogo di punizione ed espiazione, dove si separano le persone «cattive» da quelle perbene, la sua funzione sarà paragonabile a quella di una discarica per rifiuti umani, costosi, inutili e dannosi.
Finalmente arriviamo nel carcere di Pesaro con attrezzatura fotografica e un permesso concessoci dalla direttrice dell'area pedagogica, dottoressa Erichetta Vilella, che sostiene con entusiasmo il nostro progetto. Non possiamo però ritrarre le persone detenute in modo che siano riconoscibili, così l'idea è quella di raccontare, attraverso i dettagli, la «vita» all'interno del penitenziario: occhi, mani, tatuaggi, oggetti quotidiani, diventano il percorso narrativo attraverso cui vedere e ascoltare, per poi restituire all'esterno i messaggi di quell'umanità separata, relegata al silenzio, costretta al proprio buio. Cerchiamo quindi di vedere oltre la sorda facilità della rabbia, figlia delle immarcescibili logiche dell'occhio per occhio; una rabbia solitamente diretta verso chi ha sbagliato, verso chi commette reati, persino i crimini più odiosi; ma in questo caso i linguaggi dell'arte e della comunicazione ci aiutano in quel processo necessario a riconoscere le nostre responsabilità, il nostro disinteresse, i nostri stessi lati oscuri che ci appartengono ma che ci nascondiamo o fingiamo di non vedere.
Iniziamo con la sezione femminile, quasi tutte ragazze giovani e immigrate. Un piccolo gruppo di detenute accetta di partecipare attivamente alle riprese. Davvero un bel feeling, anche perché alcune sono in corrispondenza epistolare con un vecchio amico, Fernando Eros Caro, condannato amerindiano di ascendenza yaqui, rinchiuso da 30 anni nel braccio della morte californiano di San Quentin. Le ragazze faticano (e a ragione) a non pensar male del sistema giudiziario italiano, ma quando racconto di quello statunitense, con tutte le sue aberrazioni e contraddizioni, capiscono che l'Italia non è proprio l'ultimissima ruota del carro tra i paesi occidentali, in fatto di violazione dei diritti umani nei contesti carcerari. Purtroppo, pensare a qualcuno che sta peggio è solo una magra consolazione, non certo una soluzione.
Poi passiamo alla sezione maschile, molto più nutrita e ben disposta a collaborare. Solitamente, pure se convivono sotto lo stesso tetto, c'è tensione tra detenuti e personale carcerario, ma stavolta siamo fortunati: ci tocca un agente particolarmente disponibile, che ci facilita il lavoro sotto ogni aspetto e si capisce pure che è benvoluto e rispettato dai detenuti. Più che dei singoli casi giudiziari, i prigionieri tengono a farci sapere che i problemi più grandi sono rappresentati dal degrado all'interno del sistema penale italiano. Problemi che rendono un inferno la quotidianità delle prigioni e che spesso i cittadini del mondo «libero» non conoscono e nemmeno immaginano. Le fotografie che man mano scattiamo cercano di mettere a fuoco verità forse più eloquenti ed efficaci di tante parole, di tante spiegazioni: una mano priva di unghie, polsi segnati da cicatrici profonde, sguardi che implorano, chiavi che ci ricordano di stare nei luoghi con più serrature e porte al mondo, anche se ad aprirle non sei mai tu che ci abiti, ma qualcuno che le apre al posto tuo, a volte per anni, altre volte per tutta la vita.
Il progetto FinePenaMai sta dunque prendendo corpo e presto diventerà un libro di poesie e fotografie (i cui diritti d'autore saranno dedicati proprio al condannato a morte nativo americano, Fernando Caro), una mostra fotografica itinerante e iniziative multimediali su tutto il territorio italiano, con una particolare attenzione agli istituti scolastici di ogni ordine e grado.
Quasi s'accende un lumicino di speranza quando racconto ai detenuti che il carcere non è un'istituzione necessaria, inevitabile e non è vero che sia nata assieme all'essere umano e che da esso sia parte inscindibile. Ci sono invece popoli e culture che non solo non prevedevano prigioni nelle loro organizzazioni sociali, ma non avevano nemmeno le parole per definirle, poiché per essi la prigionia non esisteva neanche nella sfera concettuale: «Storici e antropologi hanno scavato la terra del nostro paese per scoprire la storia dell'emisfero occidentale - ricordava Philip Deere, indiano della tribù Muskogee-Creek - ma non hanno trovato prigioni. Non hanno trovato penitenziari. Non hanno trovato manicomi». A rafforzare questo concetto, Cervo Zoppo, nel libro Sai che gli alberi parlano, scriveva: «Prima che arrivassero i nostri fratelli bianchi per fare di noi degli uomini civilizzati non avevamo alcun tipo di prigione. Per questo motivo non avevamo nemmeno un delinquente».

venerdì 17 maggio 2013

COSTARICA
l'utopia realizzata
 

Abolire la mano d’opera per togliere istituzionalmente la vita ad altri significa fare a meno sia dei boia che degli eserciti, rinunciando perciò alle due forme di barbarie più degradanti mai create dalla specie umana: la pena di morte e la guerra. Queste due straordinarie scelte fanno del piccolo Costarica un grande modello di riferimento sociale, culturale e politico da seguire, almeno per tutti quei Paesi che vengono definiti o amano autodefinirsi democratici e civili. Gli scritti di Zingonia Zingone affondano le radici nel paese che le ha dato i natali, il Costarica, da cui probabilmente si riflette anche l’essenza poetica dell’autrice. Le parole di Zingonia sanno essere al contempo delicate e potenti, consolatrici e struggenti, leggere ma profonde, rivelatrici eppure misteriose. Nell’assenza di volgarità, di conflitto, di quella rabbia fratricida che soprattutto in questi tempi tormentati abita sia dentro che fuori di noi, si rivela la vera natura delle poesie di Zingonia, così simile alla medesima natura del paese che le ha insegnato la bellezza, la giustizia e il rispetto che fanno della sua stessa parola poetica un’utopia da realizzarsi in ogni istante della sua vita.

Appuntamento a Roma per giovedì 23 maggio, alle 19,30 presso l'Istituto Cervantes di Piazza Navona 91, al recital in lingua spagnola di Zingonia Zingone, con interazioni musicali dal vivo a cura di Marco Cinque (fiati etnici) e Pino Pecorelli (percussioni etniche).

venerdì 21 dicembre 2012

tratto da: DEMOCRAZIA KM ZERO
  


di  * * *

Una lettera collettiva di alcuni redattori del manifesto, giornale la cui lunga crisi è arrivata a un dunque: il 17 dicembre scorso due offerte per l’acquisto della testata sono arrivate ai commissari liquidatori: la prima, dello stampatore (e immobiliarista) romano Farina; la seconda, di un gruppo di finanziatori il cui rappresentante è Bevilacqua, ex membro del consiglio di amministrazioen della cooperativa il manifesto. In questo sito (http://www.democraziakmzero.org/2012/12/17/il-manifesto-una-cronaca/) altre notizie sulla vicenda e la lettera collettiva dell’attuale redazione del giornale.
 
Il manifesto è stata un’avventura straordinaria. L’invenzione di una nuova forma della politica, quando ancora nessuno immaginava che politica e comunicazione sarebbero diventate la stessa cosa. L’esercizio quotidiano di un pensiero critico, in un sistema dell’informazione che di pensiero critico non abbonda. La tessitura incessante di una rete di relazioni ricchissima, con i lettori, i collaboratori, i sostenitori. La costruzione di uno spazio in cui un giovane sconosciuto, un operaio di Marghera, un collettivo femminista erano autorizzati a parlare quanto un intellettuale blasonato. La pratica quotidiana del confronto, talvolta ruvido ma sempre interessato alle differenze in gioco, fra la generazione dei fondatori espulsi dal Pci, quella del ’68, del ’77 e del femminismo, quella della Pantera e di Genova. Il luogo di frontiera libero da dove abbiamo avuto il privilegio di attraversare, raccontare, interpretare quarant’anni densissimi di storia politica e culturale del mondo e della sinistra.
Tutto questo, e molto più di tutto questo, sotto la testatina «quotidiano comunista». Che non è mai stata, per nessuno di noi – a cominciare da Rossanda e Parlato, da sempre schierati per un giornale di ricerca e di innovazione, non di partito ma di parte -  un’etichetta identitaria, né un programma ideologico, né tantomeno una tessera. E’ stata e resta, fondamentalmente, il segno di due cose. La prima: che l’orizzonte del comunismo deve restare aperto, non come speranza per il futuro ma come contraddizione del presente, contro la volontà di potenza del capitalismo, contro la violenza sui corpi e sulle vite dei poteri vecchi e nuovi, contro i manipolatori delle menti e i colonizzatori dell’immaginario. La seconda: che fra quella testatina del giornale e la vita del gruppo che lo produce debba esserci una qualche coerenza. Non riconducibile solo alla formula proprietaria, pure importantissima, e all’egualitarismo salariale. Bensì ad uno stile delle relazioni fra noi, consapevole che quel «noi» è un soggetto prezioso e delicato, da trattare con la stessa cura dell’oggetto-giornale da mandare in edicola ogni giorno. Non dunque, come recita uno slogan oggi caro alla Direzione, un manifesto «oltre le nostre persone», ma le nostre persone nella scommessa del manifesto.
Lettrici e lettori, collaboratrici e collaboratori ci chiedono perché abbiamo mollato. Ce lo chiedono con dispiacere, talvolta sorpresi perché non capiscono, talvolta irritati come se avessimo tradito un’aspettativa o una certezza, una missione o un dovere di  resistenza. Hanno qualche ragione, perché avremmo dovuto dire più, e qualche torto, perché anche i silenzi parlano, ad esempio di un tentativo di non inasprire i toni, o del bisogno di elaborare una perdita. La risposta, comunque, è semplice: perché poco o nulla di quello che per noi è stato ed è il manifesto sopravviveva ormai in via Bargoni. Il che non significa pensare che il manifesto sia finito per sempre. Significa separarsi da un manifesto che in questo momento non è più quello che, fino all’ultimo, ci siamo spesi per tenere in vita e costruire.
Quando ci si separa, si sa che spesso volano gli stracci, e con gli stracci molte bugie. Non staremo a  contestarle o smentirle una per una. Su qualcuna però non possiamo tacere.
Non è vero che siano emerse fra noi posizioni politiche e di politica editoriale incompatibili. Né che ci sia stato uno scontro tra fautori di un “giornale-partito” contro un “giornale-giornale”. E’ vero piuttosto che negli ultimi anni è stato programmaticamente eliminato il terreno stesso del confronto politico, culturale  ed editoriale al nostro interno. Qualsiasi discussione è stata ritenuta superflua e perfino ostativa alla fattura di un giornale sempre più omologato, al di là dei singoli contributi pure spesso eccellenti, alla stampa mainstream, alla sua agenda, alle sue tematizzazioni; sempre meno sperimentale nella formula editoriale (rapporto carta-online, rapporto quotidiano-supplementi etc.); sempre più ridotto da intelligenza collettiva a macchina produttiva veicolo di interventi esterni. Questa ostinata chiusura della discussione ci ha oltretutto impedito di confrontarci con il dato duro di un forte calo delle vendite, sempre attribuito genericamente alla crisi della carta stampata e mai analizzato come sintomo specifico di una perdita di autorevolezza e di efficacia della testata.
Non è vero che la liquidazione coatta sia stata imposta dal Cda uscente, segnatamente nelle persone del suo presidente Valentino Parlato e dell’amministratore delegato Emanuele Bevilacqua. La liquidazione era l’unica opzione possibile per evitare la procedura fallimentare, tutelando i diritti e gli ammortizzatori sociali dei soci-lavoratori; lo sapevamo tutti, e l’abbiamo approvata tutti, salvo un paio di eccezioni. Essa non ci avrebbe impedito di tentare fin da subito – ormai un anno fa – di mettere a punto un piano di riacquisto della testata, con l’aiuto dei lettori e dei circoli, e di ridefinizione della cooperativa e della redazione secondo criteri organici a un piano di riforma del prodotto: per aggiornarne e rilanciarne il senso politico-editoriale, che si era appannato negli ultimi anni, e per risanare una gestione economica sbagliata, di cui tutti portiamo qualche responsabilità. Purtroppo è stata seguita un’altra strada. Nessun piano di riacquisto, mentre la cooperativa e la redazione venivano lasciati a un’emorragia spontanea  di competenze professionali e di funzioni, senza nulla fare per tamponarla, e anzi giocando su sottoutilizzazioni e prepensionamenti – questi ultimi nient’affatto «scelti», come ora si dice, bensì accettati per ridurre i costi del lavoro, e per giunta additati come posizioni di privilegio e fatti oggetto di una brutta campagna «rottamatoria»  da parte dei redattori più giovani – per sfrondare il giornale da posizioni non allineate.
Non è vero dunque che la nuova cooperativa nasca dalla differenza algebrica fra l’innocenza e la buona volontà di quanti «hanno tenuta aperta la casa» e «il menefreghismo di chi ha lasciato il giornale in un momento difficile». Essa è piuttosto il frutto dell’avocazione a sé, da parte della Direzione e delle rappresentanze sindacali, di funzioni di rappresentanza della proprietà collettiva del giornale che non sono di loro pertinenza. Fino al rifiuto di eleggere un organismo garante della trasparenza del delicato processo di transizione ed eventualmente di vendita della testata.
Altro che menefreghismo, esili volontari e porte sbattute. Su questi e su altri punti, di metodo e di sostanza, abbiamo continuato fino alla fine a proporre strade alternative e a dare battaglia, senza mai far mancare il nostro contributo gratuito di scrittura malgrado i dissensi, peraltro pubblicamente espressi sulle pagine del giornale ma mai raccolti, sempre respinti e più volte denigrati.
Sono queste le ragioni che ci hanno persuasi, non senza dolore, a non partecipare alla formazione della nuova cooperativa, di cui non ci è chiara né la prospettiva politico-editoriale né la discontinuità amministrativo-gestionale. E che nasce da una consapevole messa in mora, per non dire da un sostanziale disprezzo, di quello stile delle nostre relazioni che dicevamo all’inizio. Se ne può trarre la conclusione che noi ci siamo allontanati dal manifesto: ma solo dopo che il manifesto, «questo» manifesto, si era allontanato da noi. Quanto al domani, è tutto da scrivere.

Loris Campetti, Marco Cinque, Mariuccia Ciotta, Astrit Dakli, Ida Dominijanni, Sara Farolfi, Tiziana Ferri, Marina Forti, Maurizio Matteuzzi, Angela Pascucci, Francesco Piccioni, Gabriele Polo, Doriana Ricci, Miriam Ricci, Roberto Silvestri, Roberto Tesi (Galapagos)

mercoledì 14 novembre 2012

reading "dalla parte del torto"

Reading "dalla parte del torto"
 

Letture di testi poetici con interazioni musicali realizzate con strumenti etnici: un viaggio di parole e suoni per entrare nel mondo degli esclusi, degli invisibili, degli "ultimi" di ogni estrazione e latitudine. Appuntamento per venerdì 7 dicembre, alle ore 21,00, presso la Sala consiliare di Moniga del Garda (BS), in Piazza San Martino.

La serata sarà dedicata al nativo americano di ascendenza yaqui, Fernando Eros Caro, prigioniero da quasi 30 anni nel braccio della morte di San Quentin, in California. Tutti i ricavi delle vendite dei volumi proposti verranno devoluti interamente alla sua causa.

Il progetto multimediale "dalla parte del torto" si colloca in un percorso itinerante, attivo sin dal 1995 su tutto il territorio nazionale, in teatri, piazze, centri sociali, luoghi di aggregazione e soprattutto negli istituti scolastici di ogni ordine e grado.

venerdì 12 ottobre 2012

la poesia di Claribel Alegrìa

Claribel Alegrìa - foto di Marco Cinque

IL MANIFESTO del 29 Settembre 2012

intervista


L'Alegría di Claribel



A colloquio con la scrittrice e poetessa che Eduardo Galeano ha definito «uguale al suo nome», una delle voci contemporanee più importanti dell'America Latina. Che spiega quale dovrebbe essere il ruolo sociale di chi scrive e perché il potere ha paura della poesia come di tutte le espressioni libere. «Nasciamo tutti poeti. La cosa brutta è che a metà strada ci smarriamo e dimentichiamo il nostro stupore»

di Marco Cinque

«Di patria nicaraguense e matria salvadoregna», come ama definirsi Claribel Alegría, nata a Estelì, piccola città del Nicaragua nel 1924, è una scrittrice e poetessa tradotta in 15 lingue, considerata la contemporanea più importante dell'America Latina. A Santa Ana nel Salvador Claribel trascorre l'infanzia e l'adolescenza, dove vive per la prima volta la spietatezza di una dittatura. L'impressione è così forte che lei scomporrà e ricomporrà questo periodo di vita nei romanzi, nei racconti e in tantissime delle sue poesie. Si laurea in Lettere e filosofia alla George Washington University, città in cui incontra Darwin J. Flakoll, che sposa nel 1947. La coppia avrà quattro figli e vivrà in una comunione di amore, ideali, viaggi, creatività. Nel 1948, grazie all'aiuto del Nobel per la letteratura Juan Ramón Jiménez, viene pubblicata la sua prima raccolta di poesie, Anillo de Silencio. Nel 1978 riceve a Cuba il Casa de las Américas, il più prestigioso premio letterario centroamericano.
Negli anni '70 Claribel aderisce al Fronte Sandinista di Liberazione (d'ispirazione marxista) e partecipa attivamente alle proteste nonviolente contro la dittatura di Anastasio Somoza Debayle. Dopo aver vissuto in vari paesi europei e latinoamericani, nel 1979 Claribel e Darwin scelgono di trasferirsi in Nicaragua e scrivono, tra le altre cose, libri-testimonianza sulla realtà centroamericana. Uno di questi, Ceneri di Izalco, che racconta di una toccante storia d'amore nel contesto della repressione e dei massacri del 1932, perpetrati contro i contadini indios del Salvador, è stato tradotto per la prima volta in italiano l'anno scorso per Incontri editrice di Sassuolo. Così è stata finalmente anche compiuta la volontà di Italo Calvino, che per primo aveva tentato di tradurre l'autrice nella nostra lingua.
Claribel Alegría oggi vive a Managua e ha al suo attivo una produzione ricchissima, che comprende romanzi, saggi, libri per bambini e raccolte poetiche. È uscita in questi giorni, sempre per Incontri, la raccolta di poesie Alterità, con una toccante introduzione di Gioconda Belli, pubblicata in occasione della partecipazione di Claribel al Poesia Festival di Terre dei Castelli (Modena), che ha dato anche il via al tour italiano della scrittrice.
I versi di Claribel Alegría sono semplici, eleganti e luminosi. Parlano della vita, dei soprusi subiti dai più deboli, delle ferite che lascia in noi la morte dei «nostri morti», dell'ordine naturale delle cose e del disordine creato dalle ingiustizie che l'uomo commette sull'uomo e sulla natura. Lei si immedesima nei personaggi mitologici e biblici, sovvertendo talvolta i loro destini nel tentativo di rendere «più giusto» il corso della storia e il mondo che la circonda. Cerca le sue radici nella mitologia indigena dei maya e degli aztechi e riscatta le figure leggendarie oltraggiate dai conquistatori e dalla loro cultura imposta. Claribel fonde tutto questo in una singolare e limpida voce che denuncia e interroga, dialoga col mistero, combatte e, anche quando perde, non si arrende perché in lei prevalgono l'amore e la luce. Come dice di lei lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, «Claribel è uguale al suo nome», chiara e bella, e così anche la sua poesia.

In un mondo dove le parole sono spesso strumenti d'inganno, gli scrittori e i poeti non dovrebbero assumersi la responsabilità di chiedersi: «Quante volte riusciamo ad essere ciò che scriviamo?».

Sì, credo che gli scrittori e i poeti abbiano davvero la responsabilità di porsi questa domanda. E il mio pensiero va subito a poeti come Roque Dalton, Otto René Castillo e Leonel Rugama, che hanno vissuto secondo ciò che predicavano, consegnando la propria vita. Per quello sono stati assassinati.

In molti paesi del mondo ci sono poeti che ancora oggi vengono censurati, minacciati, arrestati, esiliati e talvolta persino uccisi, come ad esempio il saudita Hamza Kashgari che rischia il patibolo per una sua composizione o il cinese Zhu Yufu, condannato a sette anni di prigione per alcuni versi o la giovane scrittrice colombiana Angye Gaona che rischia 20 anni di carcere. Perché la poesia, se è libera, mette così paura al Potere?

Il Potere teme tutto ciò che è espressione libera, non solo i poeti.

Nel linguaggio poetico l'amore è l'argomento più abusato e spesso banalizzato. Com'è possibile trasformarlo da un fatto personale e autocelebrativo in qualcosa di collettivo e universale, in una rivendicazione, un atto di resistenza per difendere la propria umanità dalla disumanità che incombe?

Si abusa a volte dei temi dell'amore e della morte e certamente si banalizzano. L'autore, scrittore o poeta, deve tenere conto del fatto che ciò che egli vuole esprimere non appartiene solo a lui e che nel comunicarlo deve cercare di renderlo universale. Certo, deve tentare di difendere i suoi scritti dalla disumanizzazione, per questo motivo è necessario che ogni giorno si sforzi di scrivere meglio, di essere più onesto con se stesso nell'aiutare il lettore a scoprirsi.

Tranne alcuni casi, in Italia i poeti contemporanei più conosciuti e celebrati utilizzano per lo più un linguaggio di nicchia ricercato e complesso, che li relega nei percorsi autoreferenziali dei circuiti accademici e dei salotti letterari, distanti dalla capacità di comprensione della gente comune. Che ne pensi e cosa consiglieresti loro?

Parlerò di me, del caso mio, perché non ho il diritto di parlare per gli altri. Attraverso la mia poesia voglio comunicare e cerco di essere trasparente, di eliminare le foglie morte. Ho scelto il verso libero, mentre altri poeti si sentono più comodi scrivendo in modo barocco, e perché no? Bisogna essere liberi, cercarsi e ricercarsi; provare a trovare la propria misura. Sono i lettori poi a scegliere.

Parlando di pregiudizio, di settarismo e di muri che dividono, la poesia normalmente viene relegata in compartimenti stagni di appartenenza, separata dagli altri linguaggi dell'arte e della comunicazione. Che ne pensi di una possibile riunificazione, di un'interazione tra i diversi percorsi espressivi?

Tanto più si tenta di relegare la poesia, quanto più essa brilla da tutte le parti e si introduce nelle diverse forme di espressione, non solo nella letteratura, ma in tutte le altre arti e nella scienza. Ecco, la poesia invade la scienza.

Come possiamo andare al senso più autentico della poesia, alla sua funzione sociale, al suo ruolo, alla sua utilità, se spesso invece siamo prigionieri di formalismi letterari, di gabbie stilistiche, di parametri grammaticali e persino di sperimentazioni eccessive che gli stereotipi e le convenzioni che monopolizzano questo linguaggio ci pongono e ci impongono?

Penso che i poeti non debbano cercare di essere utili alla società come qualsiasi altro individuo. Non è che io pensi che una poesia o una raccolta di poesie possa cambiare il mondo, però può certamente aiutare ad aprire gli occhi, a cercare. Per me lo hanno fatto Vallejo, Pessoa, Ungaretti e tanti altri.

Se, come credo, è vero che tutte le persone nascono con la poesia, ma la maggior parte semplicemente lo dimentica, quel che conta non dovrebbe allora essere soltanto la poesia stessa, finalmente senza fregiarci del titolo di poeti?

Anch'io lo credo, sono d'accordo con te che nasciamo tutti poeti. Quale bambino non è poeta? La cosa brutta è che a metà strada ci smarriamo e dimentichiamo il nostro stupore. Diventiamo più complicati, impermeabili, insensibili.

(traduzione a cura di Zingonia Zingone)