di Marco Cinque
Non so se credere o meno nell'effettiva
esistenza dello status di poeta, di certo credo che esista la poesia,
pur con tutta l'indefinibilità che la contraddistingue. Penso che la
poesia, nelle sue molteplici forme, sia uno stato dell'essere che
abita in ciascuno di noi, nessuno escluso, anche se poi in molti
perdono o dimenticano qualunque contatto con essa, così come
d'altronde si perde o si dimentica anche il nostro stesso essere
umani, visto l'incombere di cotanta disumanità.
Al di là di chi siamo, di chi fingiamo
di essere e di chi non saremo mai, la cosa più indigesta per chi fa
della poesia la propria stessa esistenza, piuttosto che un pretesto
per la notorietà o uno strumento di esibizione e/o affermazione, è
sentirsi dire la frase fatidica: “comunque il tuo vero valore verrà
alla luce per i posteri”. Il problema è che quel medesimo valore
riconosciuto eventualmente post-mortem, in vita viene invece
ignorato, sminuito e persino deriso, mentre la coerenza su cui si
fonda il senso della poesia ti condanna irrimediabilmente a una
povertà materiale. O meglio, materialistica.
Figuriamoci poi se per chi non ambisce
ad “essere qualcuno” in vita glie ne freghi qualcosa di esserlo
dopo la morte. Questa è solo una scemenza consolatoria, come quella
che dice che i poveri sono ricchi dentro. Ma poter condurre una vita
almeno dignitosa e ambire, al massimo, a riconoscimenti come ad
esempio la “Legge Bacchelli” in Italia (per fortuna che esiste.
Non per molti, ma esiste), ti costringe comunque a stabilire un
compromesso con l'etichetta di “poeta” o di artista più in
generale. Quindi, che ti piaccia o meno, devi fregiarti di quel
titolo astratto, di quel ruolo fittizio, di quel mestiere spesso
disconosciuto, anche se non ci credi, perché purtroppo è l'unico
che possa darti da mangiare, soprattutto quando la vecchiaia e i
malanni ti divorano un boccone dopo l'altro.
Allora devi scontare persino
l'umiliazione di questa contraddizione, quando la poesia in cui credi
ti chiede di guardarla negli occhi, che sono quelli della verità
dell'essere, per scoprire che proprio quell'essere ha purtroppo
dovuto piegarsi ad altre ragioni, ad altre necessità. Quindi quella
verità si allontana da te, lasciandoti più solo di quando eri solo,
più nudo di quando non avevi che la tua pelle, perché quando la
poesia è per te una necessità come l'acqua da bere o l'aria da
respirare, non puoi avvelenarla o inquinarla, dato che lei stessa ne
morrebbe prima ancora che possa morirne tu.
E mentre si muore, la poesia è forse l'ultima cosa che resta viva sulle labbra. L'unica ambizione allora è che possa farlo in tutta la sua incompiuta purezza, in tutta la sua insondabile verità. La poesia perciò non può essere un mezzo per ottenere la felicità, al contrario, è più probabile che diventi un percorso che costa un prezzo molto salato, che non riuscirai mai a pagare. Poi la consapevolezza che dovrai elaborare quel dolore per farne un tuo compagno di viaggio, trasforma l'idea stessa di felicità, mettendo in crisi tutto il suo carico retorico. Ecco perché ridi nonostante le lacrime. Ecco perché continui a cercare nonostante la disperazione. Ecco perché seguiti ancora a chiederti: “come potrò mai fare di questo tormento la gioia altrui?”.
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