MAURO MACARIO
“Il rumore della nebbia”, Puntoacapo Edizioni.
di Marco Cinque
Sembra quasi che si
muova su una zattera di versi il mondo poetico di Mauro Macario,
avanzando attraverso il sordo “Rumore della
nebbia”, forse in cerca di un approdo, di
un faro, di un bandolo che non gli faccia perdere la strada nel
labirinto della follia umana e dei tanti Minotauri che la abitano.
Ho tra le mani questo
piccolo libretto, la copertina ruvida, essenziale. Dentro c'è la
dedica del suo autore e la prefazione di Marco Ortolani, che ho molto
apprezzato, ma anche rimandato, come mia prassi, alla fine della
lettura del viaggio in versi, non per mancanza di considerazione o
rispetto, ma per non esserne in qualche modo condizionato e
mantenere un mio personale metro di lettura.
Ammetto di non
essere capace - e nemmeno mi piace - di scrivere una recensione
letteraria forbita o una critica accademica colta, quello è un mondo
che non mi appartiene e mi fa invece pensare a quelle ricette mediche
piene di parole incomprensibili se non per gli addetti del mestiere
ma, per quel che mi riguarda, temo che la poesia non sia mai stata un
mestiere.
E allora sono qui, il più nudo possibile da
preconcetti e sovrastrutture, libero da gabbie stilistiche e prigioni
formali, a farmi condurre dalla zattera di Macario. La necessaria
nudità, indossata per avere una prospettiva di sguardo
incontaminata, conduce in una dimensione che rende possibile
ascoltare e sentire oltre le parole scritte, a percepire il non
detto, a dare un suono anche alle pause tra le parole, a decifrare
l'indecifrabile che la poesia detiene per sua stessa natura, una
natura capace di essere al contempo sia personale che universale.
C'è il sorriso tragico del pagliaccio, la consapevolezza più
lucida e feroce, l'ironia e l'autoironia più coraggiose e già dalle
righe inaugurali del primo testo, Crociera
forza sette,
la zattera di Macario è scossa dai flutti scomposti della
controversa natura umana e da tutti i suoi continui naufragi: “Le
conchiglie frantumate sulla battigia / hanno lasciato le voci sul
fondo / a calpestarle / scrocchiano come ossa rotte / la memoria
fragile dei vecchi / si china ogni inverno / su spiagge gelate / a
incollare sussulti / al silenzio dell'età”.
Il ricorso alla
radiografia letteraria, o peggio, alla vivisezione dei testi poetici,
per la mia soggettiva e discutibile opinione, non ha alcun senso, a
maggior ragione davanti a chi ammette senza tanti fronzoli: “Io
scrivo senza censure / perché poesia e anarchia / sono gemelle in
utero mundi...”. Dunque, anche lo sguardo di chi legge dovrebbe
essere capace di sentirsi parte dello stesso “utero mundi”, per
riuscire a liberare gli occhi dalle prigioni di visioni
precostituite.
Il viaggio poetico di Macario è durato due
mesi, mentre poco più di un'ora è stato il mio tempo di lettura.
Eppure, la sensazione che tra un'ora e due mesi non ci sia stata
alcuna differenza, alcuna distanza, è forte e mette in discussione
persino le nostre soggettive leggi del tempo, perché alla fine il
tempo di un fiore, nella sua percezione, non è più breve di quello
d'una sequoia. La differenza forse sta nella capacità di saper
appartenere al tempo piuttosto che pretendere che esso ci appartenga,
piegandolo alle nostre ridicole ed egoistiche esigenze.
Finito
di leggere, richiudo il libretto e scendo dalla scomoda zattera di
Mauro Macario, sperando che la nebbia si sia diradata e il suo rumore
disperso. Invece mi ritrovo ancora qui, nella stessa deriva, nello
stesso viaggio, nello stesso labirinto, nella stessa nebbia, nella
stessa poesia che mi ha racchiuso in sé e che non mi lascerà più
andar via. È come se tra chi scrive e chi legge si diventasse un
tutt'uno, stelle dello stesso cielo, naufraghi dello stesso mare.
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