RiEvoluzione Poetica

lunedì 6 novembre 2023

Una storia dal braccio della morte


Conosciamo bene cosa significhi un omicidio e sappiamo quanto sia importante interrompere il cerchio della violenza. Non possiamo impedirla tutta, ma possiamo far finire quella dello Stato che uccide in nostro nome”.
Organizzazione Famiglie per la Riconciliazione


MICHAEL WAINE HUNTER
(Braccio della morte di San Quentin, California)

È solo un alto giorno nel cortile degli esercizi fisici del braccio della morte. Un altro giorno da estorcere a questa vita, esattamente come i tremila e più che ho già passato qui, nella prigione di San Quentin, in attesa della mia esecuzione.
Sto aspettando il mio turno per utilizzare i pesi da ginnastica e, nel frattempo, i miei occhi si perdono nella muraglia che mi separa dal resto del mondo. Le pareti color giallo mostarda contrastano vivamente col mio abbigliamento da carcerato color blu, che mi fa diventare un eccellente bersaglio per i fucili d’assalto delle guardie. I miei occhi vagano sulle pareti imponenti, fermandosi nei buchi lasciati dai proiettili. Mi accorgo che gli sfregi nei muri non sono mai esattamente nello stesso posto, e penso che forse rimanere vicino a un punto già bersagliato mi terrà in salvo dalle pallottole future. Ma scuoto la testa e rido a quest’idea così assurda. Non ci sono posti sicuri quando una guardia preme il grilletto del suo fucile e manda una pallottola verso il cortile. Se la pallottola non colpisce subito il prigioniero preso di mira, si schianta contro la parete, si frammenta, rimbalza a caso e spesso ferma la sua corsa solo dopo aver trovato la carne di un carcerato. Il colpo di fucile è quasi simultaneo al gemito del prigioniero colpito. In lontanaza il suono del fischietto avverte che le guardie si stanno affrettando verso il cortile con una barella per lo sfortunato che ha bisogno di essere portato in ospedale o all’obitorio.

Il mio sguardo ora s’innalza sulle pareti gialle, le percorre in su, fino al cielo azzurro solcato dagli uccelli che volano nel vento. I loro stridii penetranti sembrano deridermi, come se mi invitassero ad unirmi a loro in quella danza di libertà, nel mondo al di là dell’acuminato filo spinato che mi confina. Dopo un po’ sento di averne abbastanza di questa frustrazione, e guardo nel cortile gli altri condannati che oggi hanno scelto di venire a fare i loro esercizi fisici. Sembriamo tanti criceti ingabbiati che corrono nella loro ruota e che si illudono che il movimento sia libertà. Mentre guardo questi uomini sudare sotto il sole, comincio a immaginare tombe di marmo con incisi i nomi delle persone assassinate dagli stessi che ora sono qui in questo cortile; un cortile che tutto d’un tratto si fa più affollato. Così i fantasmi delle vittime della violenza che ci ha condotto nel braccio della morte si uniscono a noi.

Vedo un uomo seguito da una dozzina di ragazzi singhiozzanti che gli chiedono perché dopo averli violentati si sia preso anche le loro vite. Quel condannato prova a ignorarli, ma quei ragazzi gli sono intorno e pretendono una risposta.

Vedo un altro uomo perseguitato dal fantasma di suo padre che gli urla che lo massacrerà di botte quando lo prenderà. Il condannato risponde con calma: “No, non mi colpirai di nuovo perché sei morto ed io ti ho ucciso”. Non c’è un barlume di trionfo nella voce di quest’uomo, che si allontana dal fantasma di suo padre col viso pieno di tristezza.

Vedo una guardia in uniforme che chiede a un condannato: “Perché mi hai ucciso? Ti avevo dato i soldi che volevi”. Per un momento non c’è risposta, poi il condannato prova a spiegare il suo panico durante quella rapina e di come le cose fossero sfuggite al suo controllo. Ma un carnefice non troverà mai le parole per convincere la sua vittima.

Il cortile adesso è pieno di fantasmi di vittime che gridano, che piangono, implorano e minacciano i condannati; in attesa di una spiegazione, del perché sono dovuti morire. Alcuni condannati provano ad andarsene, altri cercano di dare una risposta, ma scopriranno che per le loro azioni non ci saranno mai soluzioni, non ci saranno mai risposte.

Vedo un condannato che sta in un angolo, da solo. Non c’è nessun fantasma intorno a lui, nessuno che gli faccia domande senza risposte. Sebbene l’accusa abbia convinto la giuria che quest’uomo è colpevole di omicidio, lui in relatà non ha ucciso nessuno. È solo una vittima tra i carnefici. Egli andrà a morire nella camera a gas con la consapevolezza della sua innocenza.

All’improvviso mi sento chiamare e, sbattendo le palpebre, mi risveglio da quelle apparizioni. Il luogotenente che si è degnato di chiamare il mio nome mi sta fissando da oltre il recinto. Mi vuole parlare. Se ne sta lì rigido nella sua uniforme, con quei gradi luccicanti che gli danno chissà quale convinzione d’autorità. Mi avvicino riluttante al recinto, senza dire niente, in attesa che lui impartisca i suoi ordini. “Metti le tue cose sotto la cuccetta domani! Dobbiamo imbiancare la cella!”, comanda.

Provo una profonda rabbia all’idea che delle uniformi grigie invaderanno l’unico posto che mi fornisce rifugio, e a stento mi trattengo dal gridare: “Stai lontano dalla mia cella, luogotenente!”. Negli anni che sono stato rinchiuso nella scatola di quattro piedi per dieci che chiamo casa, sono arrivato a conoscerne ogni screpolatura della vernice, ogni inclinatura del pavimento e delle pareti. Tutto lì mi è familiare e non m’importa se le stagioni cambiano o se la luce filtra più debole attraverso le sudicie feritoie di questo carcere.

Non cambiare il mio mondo luogotenente, non farlo; perché nel braccio della morte i cambiamenti sono sempre in peggio! Non puoi capire che le persone come me sono la garanzia per il tuo posto di lavoro. Senza gente come me, quelli come te non potrebbero gironzolare qua attorno nelle loro brutte uniformi, con quell’immotivata aria di superiorità. Non capisci, sebbene ti senti lieto di avere l’opportunità di uccidermi, che sono proprio io a permetterti di vivere.

Per quanto tutti questi pensieri percorrano la mia mente, riesco a mantenere una calma estrema. Allontano la mia frustrazione e vado a sedermi contro il muro. La mia schiena trova supporto nella parete a cui mi appoggio, e mi chiedo cosa farebbe a questo muro un terremoto: forse lo farebbe cadere? Mi permetterebbe di andare in libertà come gli uccelli sopra di me? Rido dei miei pensieri, perché so che non ci farei nulla con la mia libertà. Dopo aver ricevuto per un decennio i pasti dalle guardie, morirei di fame in una stanza aspettando l’arrivo del cibo. Sarei incapace di aprire una porta e andare fuori. Starei lì seduto, in attesa di una guardia che mi cerchi per avvolgere il mio corpo di catene e che mi scorti verso la luce del giorno.

Sono molto cambiato da quando sono arrivato a San Quentin. Ora quando i miei amici mi vengono a trovare, gli chiedo di venire uno alla volta. Mi riesce difficile conversare con più di una persona alla volta quando mi portano notizie dal mondo esterno. Più di una persona per volta sarebbe quasi troppo per me, mi renderebbe preda del panico.
Mentre guardo il cielo, vedo che gli uccelli se ne sono andati. Tra poco verranno le guardie a chiudermi nella mia cella. Per un attimo ho paura che tornino i fantasmi, ma guardandomi attorno non ne vedo traccia.

La mia mente adesso è richiamata da una lettera che ho ricevuto dai mas-media. I media mi scrivono frequentemente per indagare sulla mia colpevolezza. Tutti hanno colpe, ma loro sospettano che io ne abbia più di una qualsiasi persona media che vive nel mondo esterno. Mi auguro che i loro sospetti siano corretti. Per alcune ragioni a me incomprensibili i media mi chiedono di dare spiegazioni, ma come posso spiegare le mie ragioni ai media quando non posso farlo neanche coi fantasmi che in privato mi perseguitano ogni giorno? I media… ricordo bene la telecamera che mi puntarono sul viso, in attesa che la giuria parlasse e dicesse che sarei dovuto morire. Tuttavia dovevo ancora attendere la sentenza formale: il pronunciamento rituale fatto da figure avvolte in tonache nere. Il giudice recitò la sentenza in termini legali, che solo gli avvocati potevano comprendere. La telecamera era pronta, in attesa di rubare una mia reazione al pronunciamento della parola “MORTE”. Se la mia reazione fosse stata di restare impassibile, il telespettatore coi vestiti alla moda e i capelli ben pettinati, il telespettatore medio insomma, avrebbe asserito con certezza che sarei stato un animale senza emozioni. Se avessi riso, questo avrebbe significato che avrei avuto così poca umanità da non considerare nemmeno la mia stessa vita. Se fossi stato triste o disperato, allora avrebbe significato che il dispiacere sarebbe stato solo per me stesso, quando invece avrei dovuto averne per le vittime.

Un giorno, lontano dagli occhi delle telecamere, un altro condannato mi raccontò la sua storia. Mi disse: “La madre dell’uomo che uccisi, durante il processo si sedette vicino a mia madre. Iniziò dicendole che non la riteneva responsabile per la morte di suo figlio. Mia madre pianse e passarono insieme il resto del giorno, nell’aula, a parlare sottovoce. Il giorno seguente la pubblica accusa chiese alla donna di cambiare posto; le fece osservare che non era opportuno che sedesse vicino a mia madre, perché questo poteva vanificare i loro sforzi nel cercare di ottenere un verdetto di condanna a morte. La donna rispose che sapeva cosa significasse seppellire il proprio figlio, e non aveva nessuna intenzione di aiutare l’accusa ad uccidermi per poi costringere mia madre a seppellirmi. La giuria, comunque, tornò con un verdetto di condanna a morte.
Venni scortato fuori dall’aula e guardando indietro vidi quella donna abbracciare mia madre. Piangevano entrambe. Quell’immagine è rimasta scolpita nella mia mente, ci penso ogni giorno. Non sapevo che esistesse gente come quella donna a questo mondo. Vorrei aver potuto realizzare prima quanto una mia azione avrebbe ferito questa donna e tutte le altre persone che amavano quell’uomo che mi provocò e che uccisi. La mia rabbia di un attimo ha prodotto un’eco attraverso così tante vite, portando un senso di perdita e di tremendo dolore a tutti quelli che erano legati alla vita che ho spento. Nel culmine della mia rabbia davvero non capivo l’enormità causata dal semplice atto di premere il grilletto. Farei qualsiasi cosa per ridare il figlio a questa donna, ma ormai è troppo tardi”.

Capisco le emozioni di quest’uomo. I miei fantasmi mi rammentano ogni giorno che ragazzo immaturo, superficiale e sprezzante io fossi, quando una decina di anni fa venni arrestato per omicidio. A volte arrivo perfino a desiderare la pena di morte che lo Stato della California mi ha promesso. Altre volte, invece, mi sveglio col terrore di morire nella camera a gas. In verità credo di aver paura sia di vivere che di morire.

Le guardie cominciano a chiamare i nostri nomi, significa che è ora di tornare nelle nostre celle fino a domani. Alzandomi, tocco il foro nella parete lasciato da una pallottola. Mi viene in mente che se provassi ad arrampicarmi sul muro le guardie sparerebbero e l’attesa per l’esecuzione finirebbe. Ma se la pallottola non mi uccidesse subito? Se mi riducesse paralizzato? Le guardie poi mi spingerebbero con la sedia a rotelle fino alla camera della morte. Mi ritroverei a sbavare, incapace di controllare le funzioni del mio corpo mentre mi preparerebbero per essere ammazzato, soffocato dal gas. Non so se ho più paura di morire o di rimanere paralizzato, ma oggi non scavalco il muro, oggi non voglio invitare un proiettile all’appuntamento con la mia carne.

Mi incammino verso il cancello, le guardie piazzano le catene sul mio corpo e avanzo pesantemente trascinandomi verso la mia cella. Domani sarà come oggi e oggi è lo stesso di ieri. Forse domani sarò in grado di soddisfare i miei fantasmi. Sebbene io speri con tutto me stesso di riuscire a trovare le parole per spiegare a quei fantasmi perché sono morti, anche nel caso queste parole esistessero, loro continuerebbero ad eludermi fino a quando anch’io non sarò un fantasma. E allora, chissà, anch’io potrei fare le stesse domande a quel giudice in tonaca nera, all’accusa in completo grigio o più semplicemente a quell’elettore che ha votato per la pena di morte sulla sua scheda elettorale.

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Michael Wayne Hunter (nato nel 1958) era un prigioniero e scrittore del braccio della morte di San Quentin, California. Fu incarcerato per aver ucciso suo padre e la matrigna nel 1981. Prima di commettere il suo crimine è stato quattro anni nella Marina degli Stati Uniti. Sposato con Teresa "Terri" Hunter, ma divorziò nel 1989. Originariamente condannato a morte nel maggio 1984, la sua condanna è stata commutata all'ergastolo senza possibilità di libertà condizionale dopo un nuovo processo nel febbraio 2002.

* Testo tratto dal libro di Marco Cinque "Giustizia da morire", Edizioni Multimedia

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